Le gelate
Lei cammina con la stagione:
perde le foglie,
imbrunisce col cielo
Quando calerà
sentiremo tutti più freddo
Tutta la gente intorno s’affolla, mio figlio, che non vedo da due giorni, mia sorella sta dormendo nel letto a fianco;
c’è anche “quella”, che non riesco proprio a farmi piacere… ma non dovrei chiamarla così… è la fidanzata di mio figlio e tra qualche mese si sposeranno: lui la ama ed io amo lui; non manca molto… e poi non avrò più bisogno di sopportarla. Mio marito dov’è? Non c’è. Arriverà stasera. E intanto io sono stanca di queste pareti bianche, di questo dolore che non mi lascia un istante… vorrei ricominciare a respirare normalmente, riuscire a parlare e continuo a sforzarmi di pensare a qualcosa, a qualsiasi cosa, perché nel momento in cui mi fermo, il dolore diventa più forte e l’unica cosa tremenda a cui riesco a pensare è che solo la morte mi ridarebbe la pace, morendo tornerei a star bene… E poi guardo le persone che mi circondano e le poche volte che riesco a incrociare i loro occhi –devo essere davvero una visione insopportabile – e vedo tutta quella pena… mi gira un po’ la testa, ho la nausea, il loro dolore riempie la stanza, l’aria che respiro… Quando sarò morta, sarò finalmente serena, ma la mia famiglia?
Forse non dovrei compatirli: loro si riprenderanno, andranno avanti, per loro la vita continua!
Io invece sono qui distesa, aspetto non so nemmeno cosa, non so dove andrò… tutte quelle vaghe visioni di mondi ultraterreni sono tremolanti davanti agli occhi, forse perché sono lucidi, perché vorrei solo piangere, ma non ne ho la forza…
Prima era più facile: quando caddi dal muretto del giardino dei fichi, nel podere di mio zio Salvatore – avevo sei anni – mi sbucciai tutt’e due le ginocchia e mi bruciavano talmente tanto che piansi immediatamente.
Ora invece, non so perché, non ci riesco. Forse perché so che è inutile, forse perché non voglio fargli ancora più pena… già non sanno cosa dirmi… credo che non mi vedano più, attendono solo.
Anch’io attendo l’evento che metta fine a questo limbo orribile: reparto “malati terminali”. Ci si potrebbe ambientare una storia surreale: la voce narrante sarebbe il ticchettio di un piccolo orologio, enorme per le mie orecchie, che muove un tempo fermo, che aggredisce il silenzio rendendolo più acuto; i protagonisti questi strani manichini immobili, seduti, pericolosamente dondolanti per la stanza, nervosi, impietositi, rabbiosi ed egoisti; ed io cosa sarei…?
È arrivata mia cognata, lei sembra la più tranquilla di tutti. Anche lei è triste, è vero, ma non mi butta addosso la sua pietà: lei sa come si fa, è già stata accanto ad una persona che sta morendo… la sua sorella più giovane, anche lei tumore.
Ma non vi preoccupate, non ho paura di morire: sarà come immergersi, è come il mare, quello stesso blu, l’incoscienza, un mondo diverso…È passato solo un secondo da questo ultimo pensiero ed ora vorrei disperatamente che la vita non mi lasciasse andare, sono terrorizzata, vorrei solo che qualcuno mi dicesse cosa accadrà…!
Non è un mio diritto?! Vado via prima che il mio tempo sia davvero scaduto, mi viene portata via la mia famiglia, i giorni futuri e non posso nemmeno sapere cosa succederà?! Non ditemi che Dio ha un piano per tutti… ora non ho voglia di crederci, ora mi sembra solo tutto ingiusto, ingiusta e sconcertante la normalità di tutto questo: la morte è spaventosamente normale, è questo che fa paura. In fondo tutti camminiamo dritti verso questa meta, anche tutte queste persone che mi circondano, che mi parlano, a cui fingo di rispondere, che già mi mancano perché già così lontane… loro pensano al domani, io penso solo a questa notte… notte… è la voce di mia cognata: - Che belle queste notti così chiare, così limpide: son le notti che portano gelate.
ALICE
perde le foglie,
imbrunisce col cielo
Quando calerà
sentiremo tutti più freddo
Tutta la gente intorno s’affolla, mio figlio, che non vedo da due giorni, mia sorella sta dormendo nel letto a fianco;
c’è anche “quella”, che non riesco proprio a farmi piacere… ma non dovrei chiamarla così… è la fidanzata di mio figlio e tra qualche mese si sposeranno: lui la ama ed io amo lui; non manca molto… e poi non avrò più bisogno di sopportarla. Mio marito dov’è? Non c’è. Arriverà stasera. E intanto io sono stanca di queste pareti bianche, di questo dolore che non mi lascia un istante… vorrei ricominciare a respirare normalmente, riuscire a parlare e continuo a sforzarmi di pensare a qualcosa, a qualsiasi cosa, perché nel momento in cui mi fermo, il dolore diventa più forte e l’unica cosa tremenda a cui riesco a pensare è che solo la morte mi ridarebbe la pace, morendo tornerei a star bene… E poi guardo le persone che mi circondano e le poche volte che riesco a incrociare i loro occhi –devo essere davvero una visione insopportabile – e vedo tutta quella pena… mi gira un po’ la testa, ho la nausea, il loro dolore riempie la stanza, l’aria che respiro… Quando sarò morta, sarò finalmente serena, ma la mia famiglia?
Forse non dovrei compatirli: loro si riprenderanno, andranno avanti, per loro la vita continua!
Io invece sono qui distesa, aspetto non so nemmeno cosa, non so dove andrò… tutte quelle vaghe visioni di mondi ultraterreni sono tremolanti davanti agli occhi, forse perché sono lucidi, perché vorrei solo piangere, ma non ne ho la forza…
Prima era più facile: quando caddi dal muretto del giardino dei fichi, nel podere di mio zio Salvatore – avevo sei anni – mi sbucciai tutt’e due le ginocchia e mi bruciavano talmente tanto che piansi immediatamente.
Ora invece, non so perché, non ci riesco. Forse perché so che è inutile, forse perché non voglio fargli ancora più pena… già non sanno cosa dirmi… credo che non mi vedano più, attendono solo.
Anch’io attendo l’evento che metta fine a questo limbo orribile: reparto “malati terminali”. Ci si potrebbe ambientare una storia surreale: la voce narrante sarebbe il ticchettio di un piccolo orologio, enorme per le mie orecchie, che muove un tempo fermo, che aggredisce il silenzio rendendolo più acuto; i protagonisti questi strani manichini immobili, seduti, pericolosamente dondolanti per la stanza, nervosi, impietositi, rabbiosi ed egoisti; ed io cosa sarei…?
È arrivata mia cognata, lei sembra la più tranquilla di tutti. Anche lei è triste, è vero, ma non mi butta addosso la sua pietà: lei sa come si fa, è già stata accanto ad una persona che sta morendo… la sua sorella più giovane, anche lei tumore.
Ma non vi preoccupate, non ho paura di morire: sarà come immergersi, è come il mare, quello stesso blu, l’incoscienza, un mondo diverso…È passato solo un secondo da questo ultimo pensiero ed ora vorrei disperatamente che la vita non mi lasciasse andare, sono terrorizzata, vorrei solo che qualcuno mi dicesse cosa accadrà…!
Non è un mio diritto?! Vado via prima che il mio tempo sia davvero scaduto, mi viene portata via la mia famiglia, i giorni futuri e non posso nemmeno sapere cosa succederà?! Non ditemi che Dio ha un piano per tutti… ora non ho voglia di crederci, ora mi sembra solo tutto ingiusto, ingiusta e sconcertante la normalità di tutto questo: la morte è spaventosamente normale, è questo che fa paura. In fondo tutti camminiamo dritti verso questa meta, anche tutte queste persone che mi circondano, che mi parlano, a cui fingo di rispondere, che già mi mancano perché già così lontane… loro pensano al domani, io penso solo a questa notte… notte… è la voce di mia cognata: - Che belle queste notti così chiare, così limpide: son le notti che portano gelate.
ALICE
Pelle di madre
Alcuni cercano rifugio fra le pareti ombrose di una chiesa, altri lo trovano in un abbraccio alcolico o nella serenità dei farmaci.
I più fortunati trovano conforto nella dolce metà che accompagna i loro giorni.
Viola no. Minuta, quasi eterea, la sua figura si aggirava per i viali del parco cittadino, beandosi di quel verde, della luce filtrata e del canto così poco umano dei passeri.
Era il suo paradiso segreto fino a quando non si trasformava nel suo inferno. Succedeva ogni volta, lei sapeva che sarebbe andata così, ma si sa com'è, spesso le persone sono animate da una spinta masochistica, quasi che il dolore li faccia sentire vivi. Lei ci veniva portata, avvolta dal pavido silenzio dei suoi pensieri. Solo il suo cuore malandata batteva un colpo in più quando sentiva scattare l'ora. Un passo dopo l'altro si ritrovava di nuovo lì e per un momento di beatitudine arborea, pativa poi un dolore con radici profondissime. Era un rumore particolare a richiamarlo, anzi una cacofonia di suoni: il fruscio della ghiaia sotto lo scalpiccio di piccoli piedi, battiti di mani, il cigolio delle altalene. Fino a quando eccola la bomba che faceva esplodere la sua pace: risate trillanti, acute, fresche. Si susseguivano sul cuore a onde, lasciando cicatrici ardenti sulla sua spiaggia. Le seguiva tra le ombre degli alberi, giocava con loro, ne cercava la fonte con le lacrime che già le bagnavano gli occhi.
Prima della radura si fermava un attimo e osservava la scena da lì, nascosta alla sua stessa sconfitta: alcuni bambini si rincorrevano nella luce dorata del pomeriggio, due bimbe si dondolavano a vicenda sull'altalena, dallo scivolo era un continuo sali scendi di infaticabili folletti sudati, la loro pelle brillava persino nell'ombra.
Le mamme sedevano vicine, tutte membri dello stesso esclusivo club: osservavano in disparte, attente osservatrici di quel gioco della vita di cui loro erano le fiere artefici. Potevano sembrare distratte a volte, ma Viola sapeva che alla prima lacrima o all'accenno di una caduta sarebbero state lì, pronte a coccolare il loro pulcino. L'avrebbero preso in braccio stringendolo come a volerlo riassorbire: le lacrime si sarebbero perse nelle parole dolci sussurrate al piccolo orecchio e il contatto odoroso della loro pelle avrebbe avvolto il dolore fino a farlo sparire.
Pelle: chissà come doveva essere annusarla, riconoscere in quello strato morbido l'odore familiare di qualcosa che ti appartiene, che viene da te.
Viola attraversava la radura ai margini – quello era il posto che le spettava – lasciando al centro del suo campo visivo i bambini bagnati di sole. Si sedeva sull'unica panchina rimasta vuota, milioni di anni luce da quella delle madri. Sentiva i guaiti dei cuccioli nei loro passeggini, il rumore delle ruote sulla ghiaia, avanti e indietro e i loro sguardi addosso. “È la donna senza figli!” poteva quasi sentirgli dire, ma da quel pozzo di solitudine in cui si era rifugiata non poteva vedere la tenera comprensione nei loro occhi.
Si sentiva tradita dalla vita e non poteva fare a meno di pensare che tutti la guardassero come aveva fatto lui quel giorno, il maledetto giorno in cui era arrivato il responso del medico.
“Io volevo una famiglia con te, dei figli. Che me ne faccio di un matrimonio sterile?!”
Quelle parole le erano entrate nella pelle. Si era sentita morire. In silenzio aveva ascoltato il suo cuore galleggiare in quel veleno e sciogliersi; in silenzio lo aveva guardato fare le valigie e poi andar via; in silenzio si era guardata allo specchio, donna nuda e vuota, prima di farlo a pezzi.
Quelle parole tornavano come la marea ogni volta che sedeva sulla panchina nel parco. Per fortuna c'erano gli occhiali scuri a coprire le sue lacrime sottili, in quelle giornate di sole piene di risate cristalline. Alla fine erano proprio i giochi dei bambini a ridarle un barlume di sorriso, li guardava argomentare come adulti in miniatura, gesticolare in buffe parodie dei loro genitori. Rideva. Rideva e piangeva quando li vedeva abbracciarsi all'improvviso, darsi baci, si beava di quell'affetto spontaneo e senza richieste.
Fu un giorno come tanti che nella sua vita qualcosa cambiò.
Il rituale della passeggiata si era ripetuto come sempre, ma una volta arrivata nella radura aveva subito notato un bambino nuovo. La sua voce minuta ma potente sovrastava tutte le altre; le parole uscivano a fiumi dalla sua bocca a cuore, come vento estivo si spandevano nell'aria. Poteva un corpo così piccino contenerle tutte?
Tutti intorno a lui gli altri bambini, anche loro attirati forse dalla stessa tenerezza che aveva incantato Viola.
Accelerò il passo verso la sua panchina, non voleva perdersi niente di quello spettacolo, ma quando alzò gli occhi verso la sua meta, un'immagine nuova turbò i suoi pensieri. Un'altra donna sedeva sulla sua panchina, ma non era questa la nota distorta: in grembo teneva un piccolo zainetto colorato. Era una madre, era la madre del bambino magico. Perché non sedeva con le sue simili? Era lì per sbeffeggiarla? Per tutta risposta ricevette dall'intrusa un caldo sorriso. Forse era nuova di quelle parti, se glielo avesse chiesto Viola le avrebbe certo spiegato come funzionavano le cose in quel parco. Infondo sembrava gentile, non era il caso di essere scortesi.
Provò a ricambiare il sorriso mentre si sedeva e la nuova arrivata lo scambiò per un timido invito alla chiacchiera.
“Bello questo parco! Mi sono trasferita da poco in città e l'ho scoperto per caso. Lei ci viene spesso?”
“Sì, quasi tutti i giorni, mi piace questa pace...”
“Pace?! Allora ha scelto il posto sbagliato: tutti questi bambini fanno un gran casino e ora che si è aggiunto anche mio figlio! È il biondino chiacchierone laggiù, lo vede? Ha solo cinque anni, ma è un tornado!”
Era proprio lui, il bambino d'oro.
“Come si chiama?” Viola si lasciava trasportare dalla conversazione, era bello parlare con quella donna sconosciuta e sorridente, provava un dolce senso di familiarità.
“Romeo...e non mi dica che ha un gatto che si chiama così!”
Rise insieme a lei di gusto, come non le capitava da tempo.
“Non amo i gatti e poi Romeo, prima di essere 'er meglio del Colosseo, se non sbaglio è stato un grande eroe romantico. Lo trovo un nome bellissimo.”
“Non so che strana magia si instauri tra un nome e la persona che lo porta, ma nel suo caso è stato azzeccato perché è un bambino davvero teatrale!”
La sua vocina squillante che dirigeva i giochi con maestria e curiosità era lo sfondo perfetto alle loro parole.
Rimasero su quella panchina per un tempo indefinito, tra di loro si instaurò la confidenza tipica degli estranei e Viola le raccontò tutto, la sua storia d'amore finita, la solitudine, il dolore di sentirsi una donna a metà. La sua compagna l'aveva ascoltata in religioso silenzio, comunicando solo attraverso la pelle, stringendole le mani e accarezzandole le dita. Finché Viola si era arresa tra le sue braccia e come un bambino aveva cercato di disperdere le lacrime dentro il suo abbraccio.
Ecco com'era l'odore di una mamma...
stettero così per un momento infinito, fino a quando la sua amica si voltò per gridare:
“Romeo, vieni qui un secondo!”. L'angioletto raggiunse la mamma in un balzo.
“Ti voglio presentare una persona: lei è Viola ed è una mia carissima amica.”
Gli occhi pieni di lacrime di Viola si persero nelle gemme grigie che Romeo le puntava addosso con tenerezza sconcertante.
“Ciao Viola. Perché piangi? Sei triste?”
“Ciao Romeo” stringeva la sua piccola mano, eppure sembrava lei la più fragile.
“Sì sono un po' triste purtroppo.”
Uno slancio, improvviso e meraviglioso e Romeo le aveva gettato le braccine esili e sudate intorno al collo e la stringeva con un affetto sconosciuto e sincero.
“La mia mamma fa così quando sono triste.”
Quelle parole semplici e vere caddero nel pozzo della sua solitudine, sgretolandolo.
Rise, mentre lacrime di gioia lasciavano cicatrici nuove sul suo viso.
“Grazie Romeo, ora sto meglio.”
Si allontanò lasciando una scia di felicità nell'aria, nella luce, addosso a Viola. Lei era ancora immersa in quel contatto, l'abbraccio che aveva cercato da tanto tempo.
“Viola, devi buttarti alle spalle questo dolore. Non lasciare che gli altri ti dicano cosa non sei: tu SEI una madre, ogni donna lo è. Non è la vita che dai a deciderlo, ma l'amore che hai da dare. Non cercarlo fuori, ma dentro di te.”
Era bastato quel tocco, aveva cambiato tutto. Guardò il bambino piena di gratitudine mentre lo salutava con gli occhi.
Aveva sbagliato tutto, era sempre stata lì, la sua pelle di madre.
ALICE
I più fortunati trovano conforto nella dolce metà che accompagna i loro giorni.
Viola no. Minuta, quasi eterea, la sua figura si aggirava per i viali del parco cittadino, beandosi di quel verde, della luce filtrata e del canto così poco umano dei passeri.
Era il suo paradiso segreto fino a quando non si trasformava nel suo inferno. Succedeva ogni volta, lei sapeva che sarebbe andata così, ma si sa com'è, spesso le persone sono animate da una spinta masochistica, quasi che il dolore li faccia sentire vivi. Lei ci veniva portata, avvolta dal pavido silenzio dei suoi pensieri. Solo il suo cuore malandata batteva un colpo in più quando sentiva scattare l'ora. Un passo dopo l'altro si ritrovava di nuovo lì e per un momento di beatitudine arborea, pativa poi un dolore con radici profondissime. Era un rumore particolare a richiamarlo, anzi una cacofonia di suoni: il fruscio della ghiaia sotto lo scalpiccio di piccoli piedi, battiti di mani, il cigolio delle altalene. Fino a quando eccola la bomba che faceva esplodere la sua pace: risate trillanti, acute, fresche. Si susseguivano sul cuore a onde, lasciando cicatrici ardenti sulla sua spiaggia. Le seguiva tra le ombre degli alberi, giocava con loro, ne cercava la fonte con le lacrime che già le bagnavano gli occhi.
Prima della radura si fermava un attimo e osservava la scena da lì, nascosta alla sua stessa sconfitta: alcuni bambini si rincorrevano nella luce dorata del pomeriggio, due bimbe si dondolavano a vicenda sull'altalena, dallo scivolo era un continuo sali scendi di infaticabili folletti sudati, la loro pelle brillava persino nell'ombra.
Le mamme sedevano vicine, tutte membri dello stesso esclusivo club: osservavano in disparte, attente osservatrici di quel gioco della vita di cui loro erano le fiere artefici. Potevano sembrare distratte a volte, ma Viola sapeva che alla prima lacrima o all'accenno di una caduta sarebbero state lì, pronte a coccolare il loro pulcino. L'avrebbero preso in braccio stringendolo come a volerlo riassorbire: le lacrime si sarebbero perse nelle parole dolci sussurrate al piccolo orecchio e il contatto odoroso della loro pelle avrebbe avvolto il dolore fino a farlo sparire.
Pelle: chissà come doveva essere annusarla, riconoscere in quello strato morbido l'odore familiare di qualcosa che ti appartiene, che viene da te.
Viola attraversava la radura ai margini – quello era il posto che le spettava – lasciando al centro del suo campo visivo i bambini bagnati di sole. Si sedeva sull'unica panchina rimasta vuota, milioni di anni luce da quella delle madri. Sentiva i guaiti dei cuccioli nei loro passeggini, il rumore delle ruote sulla ghiaia, avanti e indietro e i loro sguardi addosso. “È la donna senza figli!” poteva quasi sentirgli dire, ma da quel pozzo di solitudine in cui si era rifugiata non poteva vedere la tenera comprensione nei loro occhi.
Si sentiva tradita dalla vita e non poteva fare a meno di pensare che tutti la guardassero come aveva fatto lui quel giorno, il maledetto giorno in cui era arrivato il responso del medico.
“Io volevo una famiglia con te, dei figli. Che me ne faccio di un matrimonio sterile?!”
Quelle parole le erano entrate nella pelle. Si era sentita morire. In silenzio aveva ascoltato il suo cuore galleggiare in quel veleno e sciogliersi; in silenzio lo aveva guardato fare le valigie e poi andar via; in silenzio si era guardata allo specchio, donna nuda e vuota, prima di farlo a pezzi.
Quelle parole tornavano come la marea ogni volta che sedeva sulla panchina nel parco. Per fortuna c'erano gli occhiali scuri a coprire le sue lacrime sottili, in quelle giornate di sole piene di risate cristalline. Alla fine erano proprio i giochi dei bambini a ridarle un barlume di sorriso, li guardava argomentare come adulti in miniatura, gesticolare in buffe parodie dei loro genitori. Rideva. Rideva e piangeva quando li vedeva abbracciarsi all'improvviso, darsi baci, si beava di quell'affetto spontaneo e senza richieste.
Fu un giorno come tanti che nella sua vita qualcosa cambiò.
Il rituale della passeggiata si era ripetuto come sempre, ma una volta arrivata nella radura aveva subito notato un bambino nuovo. La sua voce minuta ma potente sovrastava tutte le altre; le parole uscivano a fiumi dalla sua bocca a cuore, come vento estivo si spandevano nell'aria. Poteva un corpo così piccino contenerle tutte?
Tutti intorno a lui gli altri bambini, anche loro attirati forse dalla stessa tenerezza che aveva incantato Viola.
Accelerò il passo verso la sua panchina, non voleva perdersi niente di quello spettacolo, ma quando alzò gli occhi verso la sua meta, un'immagine nuova turbò i suoi pensieri. Un'altra donna sedeva sulla sua panchina, ma non era questa la nota distorta: in grembo teneva un piccolo zainetto colorato. Era una madre, era la madre del bambino magico. Perché non sedeva con le sue simili? Era lì per sbeffeggiarla? Per tutta risposta ricevette dall'intrusa un caldo sorriso. Forse era nuova di quelle parti, se glielo avesse chiesto Viola le avrebbe certo spiegato come funzionavano le cose in quel parco. Infondo sembrava gentile, non era il caso di essere scortesi.
Provò a ricambiare il sorriso mentre si sedeva e la nuova arrivata lo scambiò per un timido invito alla chiacchiera.
“Bello questo parco! Mi sono trasferita da poco in città e l'ho scoperto per caso. Lei ci viene spesso?”
“Sì, quasi tutti i giorni, mi piace questa pace...”
“Pace?! Allora ha scelto il posto sbagliato: tutti questi bambini fanno un gran casino e ora che si è aggiunto anche mio figlio! È il biondino chiacchierone laggiù, lo vede? Ha solo cinque anni, ma è un tornado!”
Era proprio lui, il bambino d'oro.
“Come si chiama?” Viola si lasciava trasportare dalla conversazione, era bello parlare con quella donna sconosciuta e sorridente, provava un dolce senso di familiarità.
“Romeo...e non mi dica che ha un gatto che si chiama così!”
Rise insieme a lei di gusto, come non le capitava da tempo.
“Non amo i gatti e poi Romeo, prima di essere 'er meglio del Colosseo, se non sbaglio è stato un grande eroe romantico. Lo trovo un nome bellissimo.”
“Non so che strana magia si instauri tra un nome e la persona che lo porta, ma nel suo caso è stato azzeccato perché è un bambino davvero teatrale!”
La sua vocina squillante che dirigeva i giochi con maestria e curiosità era lo sfondo perfetto alle loro parole.
Rimasero su quella panchina per un tempo indefinito, tra di loro si instaurò la confidenza tipica degli estranei e Viola le raccontò tutto, la sua storia d'amore finita, la solitudine, il dolore di sentirsi una donna a metà. La sua compagna l'aveva ascoltata in religioso silenzio, comunicando solo attraverso la pelle, stringendole le mani e accarezzandole le dita. Finché Viola si era arresa tra le sue braccia e come un bambino aveva cercato di disperdere le lacrime dentro il suo abbraccio.
Ecco com'era l'odore di una mamma...
stettero così per un momento infinito, fino a quando la sua amica si voltò per gridare:
“Romeo, vieni qui un secondo!”. L'angioletto raggiunse la mamma in un balzo.
“Ti voglio presentare una persona: lei è Viola ed è una mia carissima amica.”
Gli occhi pieni di lacrime di Viola si persero nelle gemme grigie che Romeo le puntava addosso con tenerezza sconcertante.
“Ciao Viola. Perché piangi? Sei triste?”
“Ciao Romeo” stringeva la sua piccola mano, eppure sembrava lei la più fragile.
“Sì sono un po' triste purtroppo.”
Uno slancio, improvviso e meraviglioso e Romeo le aveva gettato le braccine esili e sudate intorno al collo e la stringeva con un affetto sconosciuto e sincero.
“La mia mamma fa così quando sono triste.”
Quelle parole semplici e vere caddero nel pozzo della sua solitudine, sgretolandolo.
Rise, mentre lacrime di gioia lasciavano cicatrici nuove sul suo viso.
“Grazie Romeo, ora sto meglio.”
Si allontanò lasciando una scia di felicità nell'aria, nella luce, addosso a Viola. Lei era ancora immersa in quel contatto, l'abbraccio che aveva cercato da tanto tempo.
“Viola, devi buttarti alle spalle questo dolore. Non lasciare che gli altri ti dicano cosa non sei: tu SEI una madre, ogni donna lo è. Non è la vita che dai a deciderlo, ma l'amore che hai da dare. Non cercarlo fuori, ma dentro di te.”
Era bastato quel tocco, aveva cambiato tutto. Guardò il bambino piena di gratitudine mentre lo salutava con gli occhi.
Aveva sbagliato tutto, era sempre stata lì, la sua pelle di madre.
ALICE
OMBRE
Viaggiava in una vecchia cadillac
nera sporca di fango sotto una pioggia impietosa. Nemmeno quell’acqua fredda
lavava via lo schifo dai volti, dalle strade di quella dannata città. Ecco dove
Dio aveva scagliato i suoi ribelli: niente amore in quelle donne che vendevano
la purezza dei loro occhi per cartacce sporche di oscenità; niente amore in
quei corpi disumani accasciati sul ciglio dei marciapiedi in cerca disperata di
polveri per le loro menti annebbiate.
Sfrecciava sull’asfalto bagnato senza fermarsi; in sottofondo un vecchio rock, sul sedile laterale la sua fedele magnum e tra le gambe una bottiglia del peggior whisky: ne beveva grandi sorsate, imprecando forse contro i fantasmi della sua mente stanca; poi dava ancora più gas lasciando scivolare l’auto vicino ai suoi limiti più pericolosi, ridendo della Morte che camminava su quelle strade e quasi sperando che prendesse anche lui. Si guardava attorno con occhi furenti e avidi di violenza, velati di un’angoscia repressa: scattavano veloci da una sponda all’altra di quel fiume nero fermandosi su ogni insegna al neon. In quell’atmosfera uggiosa e scura gli parevano i lumi tecnologici di cimiteri moderni che vomitavano fetori malsani e il frastuono delle vite negate. Svoltò di scatto e parcheggiò di fretta urtando il marciapiedi con il paraurti. Spense il motore, prese la sua magnum e la infilò nei pantaloni lasciando cadere la bottiglia ormai mezza vuota sul sedile; si toccò la tasca per controllare di avere con sé il serramanico e accertatosene scese dall’auto sbattendo rumorosamente la portiera. Si avviò verso l’entrata del bar con passi lenti e cadenzati, la testa alta e gli occhi socchiusi, le labbra tese e un’espressione inconsistente, come gli strani pensieri che gli attraversavano la mente senza fermarsi lasciandola così pericolosamente vuota. Nonostante la pioggia sferzante né lui né gli altri fuori dal bar si coprivano: il ciccione in giacca e cravatta e la sua laida compagna, venuto all’inferno per godere di un po’ di perversione sfidando solo di nascosto il perbenismo di una società abitudinaria; i tre tizi strafatti appoggiati al muro. Entrò bagnato fradicio e si sedette al bancone ordinando un doppio bourbon; non passarono cinque minuti che una bionda tutta curve prese posto accanto a lui: indossava un vecchio abito sgualcito sul quale brillavano ora solo poche paillettes rosa, con una spallina che le ricadeva molle sul braccio e una scollatura che lasciava poco spazio all’immaginazione; i tacchi altissimi le allungavano le gambe sode abituate a mani sudaticce e a luridi baci. Le labbra turgide erano colorate di un rosso sbiadito che si allargava come una macchia intorno alla bocca piena di rabbia; lo sguardo chiaro in cui si affaticavano due perle azzurre, era completamente spento.
Gli sembrava una fatina decaduta che aveva perso ali, bacchetta e il dominio del cielo turchese e aveva dovuto imparare a camminare sulla nera terra. Gli toccò il braccio e con voce atona gli chiese: - Ti va di divertirti un po’ con me? Solo venti dollari. Lui tirò fuori la banconota e gliela porse tra due dita. – Vieni con me.- Scese dallo sgabello e prendendola per mano la trascinò fuori. Lei lo seguiva con occhi stanchi e passi veloci e barcollanti. Lui camminava deciso con mente improvvisamente lucida. Salirono in macchina diretti verso la periferia e poi più in là, verso la valle polverosa e desolata. Due chilometri lontano dalla città fermò l’auto in mezzo al nulla. Restarono entrambi a guardare il paesaggio davanti a loro per qualche istante, poi lei prese un preservativo: - Te lo devo mettere? – disse, quasi ripetesse le monotone battute della sua triste parte. Lui si voltò lentamente e la guardò negli occhi accennando un timido sorriso e le colpì il viso con un violento pugno che le fece perdere i sensi. Scese dalla macchina trascinando il corpo della ragazza e sdraiandolo ben legato sul cofano. Estrasse il suo fedele serramanico e cominciò a segnarle le braccia e le gambe con profondi tagli, godendo alla visto di quel caldo sangue zampillante. Lei cominciò lentamente a rinvenire e resasi conto di ciò che stava accadendo iniziò a gemere e a gridare con voce rauca e soffocata dalle lacrime. Lui la guardava contorcersi nella sua disperazione e già la noia tornava a riempire i suoi occhi ormai stanchi del macabro gioco. Le si avvicinò con cautela, appoggiò le mani e il ginocchio sinistro sul cofano, le si fece vicino e le baciò la fronte imperlata di sudore, mentre lei scalciava e si dibatteva come un pesce preso all’amo. Si allontanò e si appostò di fronte alla macchina: estrasse la sua magnum con lentezza inquietante, la puntò con attenzione e fece fuoco colpendola dritto in mezzo agli occhi. Parte del cervello schizzò in aria e un grosso fiotto di sangue si riversò sul volto sconvolto, scivolando poi giù sul collo e su quel petto che le aveva pagato l’affitto. Ricadde pesante sul parabrezza scheggiandolo: accasciata così, la ferita ancora calda, gli occhi sbarrati pieni di paura, la bocca spalancata in un grido senza voce piena di sangue, il volto e l’abito sgualcito insanguinati. Ora non era più una fatina, era solo un’ombra più leggera e bella di quei fantasmi mediocri che le avevano aleggiato intorno come parassiti. Ora era qualcuno. Lui salì in macchina e ingranò la retro: il cadavere rotolò a terra tra la polvere e il silenzio di quella desolazione così profonda. Scomparve sulla strada, anche lui un’ombra nel limbo scuro di milioni di ombre.
ALICE
Sfrecciava sull’asfalto bagnato senza fermarsi; in sottofondo un vecchio rock, sul sedile laterale la sua fedele magnum e tra le gambe una bottiglia del peggior whisky: ne beveva grandi sorsate, imprecando forse contro i fantasmi della sua mente stanca; poi dava ancora più gas lasciando scivolare l’auto vicino ai suoi limiti più pericolosi, ridendo della Morte che camminava su quelle strade e quasi sperando che prendesse anche lui. Si guardava attorno con occhi furenti e avidi di violenza, velati di un’angoscia repressa: scattavano veloci da una sponda all’altra di quel fiume nero fermandosi su ogni insegna al neon. In quell’atmosfera uggiosa e scura gli parevano i lumi tecnologici di cimiteri moderni che vomitavano fetori malsani e il frastuono delle vite negate. Svoltò di scatto e parcheggiò di fretta urtando il marciapiedi con il paraurti. Spense il motore, prese la sua magnum e la infilò nei pantaloni lasciando cadere la bottiglia ormai mezza vuota sul sedile; si toccò la tasca per controllare di avere con sé il serramanico e accertatosene scese dall’auto sbattendo rumorosamente la portiera. Si avviò verso l’entrata del bar con passi lenti e cadenzati, la testa alta e gli occhi socchiusi, le labbra tese e un’espressione inconsistente, come gli strani pensieri che gli attraversavano la mente senza fermarsi lasciandola così pericolosamente vuota. Nonostante la pioggia sferzante né lui né gli altri fuori dal bar si coprivano: il ciccione in giacca e cravatta e la sua laida compagna, venuto all’inferno per godere di un po’ di perversione sfidando solo di nascosto il perbenismo di una società abitudinaria; i tre tizi strafatti appoggiati al muro. Entrò bagnato fradicio e si sedette al bancone ordinando un doppio bourbon; non passarono cinque minuti che una bionda tutta curve prese posto accanto a lui: indossava un vecchio abito sgualcito sul quale brillavano ora solo poche paillettes rosa, con una spallina che le ricadeva molle sul braccio e una scollatura che lasciava poco spazio all’immaginazione; i tacchi altissimi le allungavano le gambe sode abituate a mani sudaticce e a luridi baci. Le labbra turgide erano colorate di un rosso sbiadito che si allargava come una macchia intorno alla bocca piena di rabbia; lo sguardo chiaro in cui si affaticavano due perle azzurre, era completamente spento.
Gli sembrava una fatina decaduta che aveva perso ali, bacchetta e il dominio del cielo turchese e aveva dovuto imparare a camminare sulla nera terra. Gli toccò il braccio e con voce atona gli chiese: - Ti va di divertirti un po’ con me? Solo venti dollari. Lui tirò fuori la banconota e gliela porse tra due dita. – Vieni con me.- Scese dallo sgabello e prendendola per mano la trascinò fuori. Lei lo seguiva con occhi stanchi e passi veloci e barcollanti. Lui camminava deciso con mente improvvisamente lucida. Salirono in macchina diretti verso la periferia e poi più in là, verso la valle polverosa e desolata. Due chilometri lontano dalla città fermò l’auto in mezzo al nulla. Restarono entrambi a guardare il paesaggio davanti a loro per qualche istante, poi lei prese un preservativo: - Te lo devo mettere? – disse, quasi ripetesse le monotone battute della sua triste parte. Lui si voltò lentamente e la guardò negli occhi accennando un timido sorriso e le colpì il viso con un violento pugno che le fece perdere i sensi. Scese dalla macchina trascinando il corpo della ragazza e sdraiandolo ben legato sul cofano. Estrasse il suo fedele serramanico e cominciò a segnarle le braccia e le gambe con profondi tagli, godendo alla visto di quel caldo sangue zampillante. Lei cominciò lentamente a rinvenire e resasi conto di ciò che stava accadendo iniziò a gemere e a gridare con voce rauca e soffocata dalle lacrime. Lui la guardava contorcersi nella sua disperazione e già la noia tornava a riempire i suoi occhi ormai stanchi del macabro gioco. Le si avvicinò con cautela, appoggiò le mani e il ginocchio sinistro sul cofano, le si fece vicino e le baciò la fronte imperlata di sudore, mentre lei scalciava e si dibatteva come un pesce preso all’amo. Si allontanò e si appostò di fronte alla macchina: estrasse la sua magnum con lentezza inquietante, la puntò con attenzione e fece fuoco colpendola dritto in mezzo agli occhi. Parte del cervello schizzò in aria e un grosso fiotto di sangue si riversò sul volto sconvolto, scivolando poi giù sul collo e su quel petto che le aveva pagato l’affitto. Ricadde pesante sul parabrezza scheggiandolo: accasciata così, la ferita ancora calda, gli occhi sbarrati pieni di paura, la bocca spalancata in un grido senza voce piena di sangue, il volto e l’abito sgualcito insanguinati. Ora non era più una fatina, era solo un’ombra più leggera e bella di quei fantasmi mediocri che le avevano aleggiato intorno come parassiti. Ora era qualcuno. Lui salì in macchina e ingranò la retro: il cadavere rotolò a terra tra la polvere e il silenzio di quella desolazione così profonda. Scomparve sulla strada, anche lui un’ombra nel limbo scuro di milioni di ombre.
ALICE
Affetto da sindrome di Stoccolma
Mia cara,
si può amare qualcuno che non ti ama?
Non è forse la condivisione il principio cardine dell'amore?
È come se fossimo cresciuti insieme, io e te. Da bambini conoscevamo tutti il tuo nome, suonava solenne e strano e sebbene non ne parlassimo mai, eri una presenza continua, nei nostri giochi, negli scherzi, nelle cantilene dei dialetti.
Da ragazzino era facile immaginarti camminare tra i prati montani tutta vestita di fiori, distesa su una spiaggia dorata, cantare insieme ai pini, i seni morbidi come le dune… Bellissima anche nell'aura bianca della città, nei tuoi occhi storie antichissime di civiltà ed eroi nutrivano il mio cuore affamato di sogni. Crescendo eri diventata quasi una sensazione fisiologica, un richiamo sanguigno che nessuna maldicenza avrebbe potuto affievolire, tu fondamento profondo della mia stessa essenza. Quanto ti amavo...
Poi mi son svegliato. La tua immagine era ancora lì, immutata, ma non c'era alcun segno vitale. Non stavo costruendo nulla, il tuo era solo un gioco crudele : la mia vita come sabbia fragile fra le tue dita terribili e belle…
Faccio le valigie: dentro quel che rimane delle mie radici ferite. Parto in cerca di una vita vera, un futuro solido. Non chiamarmi libero, mentre con le tue mani aspre mi chiudi la porta in faccia. Che bugiarda, profumi ancora di buono, ma io sento solo puzza di passato stantio.
Ti lascio per non tornare forse mai più: mi volterò mentre vado via, ma non diventerò una statua di sale: ti terrò un po' negli occhi, addormentata tra le mie ciglia, mentre piangendo ti dirò addio. Sono arrivato a odiarti, ma è un odio che contiene in sé tutto l'amore del mondo: mi sono innamorato del mio carceriere e ora che scappo da questa prigione mi manchi già.
Ma ovunque andrò sarai sempre dentro di me, nella cantilena dolce della mia voce, sulla mia pelle bruna, nel sentimento più tenace. E io per la prima volta SARO': un uomo nuovo.
Addio, Terra mia.
ALICE
Questo racconto è presente nella raccolta "365 storie d'amore", una raccolta di racconti dedicati a ogni sfumatura dell'amore, edita da Delos Book: una storia per ogni giorno dell'anno e per tutti i gusti!
si può amare qualcuno che non ti ama?
Non è forse la condivisione il principio cardine dell'amore?
È come se fossimo cresciuti insieme, io e te. Da bambini conoscevamo tutti il tuo nome, suonava solenne e strano e sebbene non ne parlassimo mai, eri una presenza continua, nei nostri giochi, negli scherzi, nelle cantilene dei dialetti.
Da ragazzino era facile immaginarti camminare tra i prati montani tutta vestita di fiori, distesa su una spiaggia dorata, cantare insieme ai pini, i seni morbidi come le dune… Bellissima anche nell'aura bianca della città, nei tuoi occhi storie antichissime di civiltà ed eroi nutrivano il mio cuore affamato di sogni. Crescendo eri diventata quasi una sensazione fisiologica, un richiamo sanguigno che nessuna maldicenza avrebbe potuto affievolire, tu fondamento profondo della mia stessa essenza. Quanto ti amavo...
Poi mi son svegliato. La tua immagine era ancora lì, immutata, ma non c'era alcun segno vitale. Non stavo costruendo nulla, il tuo era solo un gioco crudele : la mia vita come sabbia fragile fra le tue dita terribili e belle…
Faccio le valigie: dentro quel che rimane delle mie radici ferite. Parto in cerca di una vita vera, un futuro solido. Non chiamarmi libero, mentre con le tue mani aspre mi chiudi la porta in faccia. Che bugiarda, profumi ancora di buono, ma io sento solo puzza di passato stantio.
Ti lascio per non tornare forse mai più: mi volterò mentre vado via, ma non diventerò una statua di sale: ti terrò un po' negli occhi, addormentata tra le mie ciglia, mentre piangendo ti dirò addio. Sono arrivato a odiarti, ma è un odio che contiene in sé tutto l'amore del mondo: mi sono innamorato del mio carceriere e ora che scappo da questa prigione mi manchi già.
Ma ovunque andrò sarai sempre dentro di me, nella cantilena dolce della mia voce, sulla mia pelle bruna, nel sentimento più tenace. E io per la prima volta SARO': un uomo nuovo.
Addio, Terra mia.
ALICE
Questo racconto è presente nella raccolta "365 storie d'amore", una raccolta di racconti dedicati a ogni sfumatura dell'amore, edita da Delos Book: una storia per ogni giorno dell'anno e per tutti i gusti!