Oltre alle zanne c'è di più: il mio amico squalo
Divoratori di uomini, mostri marini, il terrore degli abissi...
Gli squali sono considerati quasi unanimemente creature spaventose. Eppure esistono animali che possono essere ben più temibili in quanto a dimensioni, forza e velocità, come le orche che infatti rappresentano l'unico “nemico” del grande squalo bianco.
Ma diciamoci la verità, le orche sono mammiferi come noi e tutti ci ricordiamo del povero Willy ingiustamente imprigionato in un terribile parco acquatico.
Hollywood contro Hollywood, “Free Willy” vs. “Lo Squalo”, in una lotta impari che ha schierato uno contro l'altro due spettacolari predatori, col risultato però di renderne uno simpatico e l'altro odiato dal pubblico.
Questo perché abbiamo la presunzione di pensare che tutto ruoti intorno a noi, vogliamo attribuire caratteristiche “umane” agli altri abitanti di questo pianeta, per poterli così sistemare nelle nostre diverse categorie: “creature tenere”, “simpatiche”, “buffe”, “spietati killer”, ecc.
Ma la natura non ragiona così: ogni forma di vita è legata alle altre non da legami affettivi, ma da una continuità funzionale che rappresenta l'ingranaggio di tutto ciò che vive intorno a noi.
E così lo squalo e l'orca, divisi nei nostri cuori, svolgono in realtà insieme un ruolo importantissimo: quello di predatori di vertice.
Un concetto che ho spiegato così al mio nipotino di cinque anni: sono sostanzialmente dei “controllori ambientali” che grazie alla loro attività mangereccia tengono sotto controllo le popolazioni delle loro prede, impedendo quindi che ce ne siano troppe. Così facendo anche l'alimento delle prede (che può essere costituito da altri organismi o da alghe/piante) viene controllato, rimanendo sempre in quantità tali da garantire la sopravvivenza di chi se ne nutre.
Uccidere gli squali determinando la loro estinzione significherebbe quindi dare il via a un disastroso effetto domino, con conseguenze terribili per l'ambiente acquatico.
Ma a parte ogni discorso di tipo ecologico, è giusto sterminare una specie solo perché “non ci piace”?
Gli squali sono considerati quasi unanimemente creature spaventose. Eppure esistono animali che possono essere ben più temibili in quanto a dimensioni, forza e velocità, come le orche che infatti rappresentano l'unico “nemico” del grande squalo bianco.
Ma diciamoci la verità, le orche sono mammiferi come noi e tutti ci ricordiamo del povero Willy ingiustamente imprigionato in un terribile parco acquatico.
Hollywood contro Hollywood, “Free Willy” vs. “Lo Squalo”, in una lotta impari che ha schierato uno contro l'altro due spettacolari predatori, col risultato però di renderne uno simpatico e l'altro odiato dal pubblico.
Questo perché abbiamo la presunzione di pensare che tutto ruoti intorno a noi, vogliamo attribuire caratteristiche “umane” agli altri abitanti di questo pianeta, per poterli così sistemare nelle nostre diverse categorie: “creature tenere”, “simpatiche”, “buffe”, “spietati killer”, ecc.
Ma la natura non ragiona così: ogni forma di vita è legata alle altre non da legami affettivi, ma da una continuità funzionale che rappresenta l'ingranaggio di tutto ciò che vive intorno a noi.
E così lo squalo e l'orca, divisi nei nostri cuori, svolgono in realtà insieme un ruolo importantissimo: quello di predatori di vertice.
Un concetto che ho spiegato così al mio nipotino di cinque anni: sono sostanzialmente dei “controllori ambientali” che grazie alla loro attività mangereccia tengono sotto controllo le popolazioni delle loro prede, impedendo quindi che ce ne siano troppe. Così facendo anche l'alimento delle prede (che può essere costituito da altri organismi o da alghe/piante) viene controllato, rimanendo sempre in quantità tali da garantire la sopravvivenza di chi se ne nutre.
Uccidere gli squali determinando la loro estinzione significherebbe quindi dare il via a un disastroso effetto domino, con conseguenze terribili per l'ambiente acquatico.
Ma a parte ogni discorso di tipo ecologico, è giusto sterminare una specie solo perché “non ci piace”?
Che strano attribuire sentimenti umani a uno squalo...
Mi ricordo che la prima volta che vidi un documentario sul grande squalo bianco (avevo nove anni e davanti a me c'era il maestro Jacques Cousteau), mi innamorai di quella creatura all'apparenza feroce. Era bellissimo nella sua estraneità e in quell'indecifrabile espressione dei suoi occhi neri profondissimi ho visto tutto l'oceano, quel mondo così lontano e diverso dal mio.
Ciò che negli altri scatena la paura ha avuto l'effetto di affascinarmi: difficile non ammirarne la potenza, l'eleganza dei movimenti e il carattere solitario che lo rendono una creatura misteriosa.
È come trovarsi di fronte a una leggenda, un mito che conserva ancora il potere di colpire la creatura più temibile di questo pianeta: l'uomo.
Forse è proprio questo che spaventa più di tutto il nostro inconscio: la consapevolezza di trovarsi di fronte a una creatura ancestrale che può rappresentare un pericolo per noi.
Ma cosa si sa veramente di questo dominatore degli oceani?
Si sa che è un pesce cartilagineo (appartenente quindi al gruppo dei Condroitti), ovvero dotato di uno scheletro fatto di cartilagine, più leggero e flessibile.
Si sa anche che appartiene a quella categoria di squali che per sopravvivere deve continuare a nuotare, non solo perché il nuoto gli consente di stare in assetto, ma soprattutto perché permette il passaggio di acqua ossigenata nelle branchie: il movimento infatti spinge l'acqua attraverso le fessure branchiali che si trovano ai lati del capo.
Per lo squalo bianco è fondamentale perché è un gran nuotatore: non è il più veloce tra i suoi, ma di certo è uno dei più costanti. Questo gigante è infatti uno straordinario migratore che può compiere migliaia di chilometri: uno studio condotto in Australia ha permesso di seguire, tramite l'utilizzo di segnali satellitari, alcuni esemplari che dalle coste australiane sono arrivati fino al Sud Africa.
Ma quando necessario, lo squalo bianco è in grado di compiere anche notevoli accelerazioni: le sue prede sono infatti rappresentate da animali molto più veloci come foche, leoni marini, tonni, delfini, che non avrebbero problemi a batterlo in una gara. È per questo che la sua strategia di caccia si basa sull'effetto sorpresa: i momenti migliori sono poco dopo l'alba e il tramonto, quando i raggi del sole, obliqui sulla superficie del mare, ne diminuiscono la visibilità. Lo squalo bianco sfrutta non solo queste particolari condizioni di scarsa luminosità, ma il suo dorso grigio si mimetizza molto bene con l'ambiente circostante rendendolo quasi invisibile visto dall'alto. Si muove infatti in profondità cercando di rimanere sempre sotto le sue prede che soprattutto nel caso dei mammiferi, devono spesso tornare in superficie per respirare. L'attacco è poi fulmineo: un siluro che punta dritto al suo obiettivo e spesso non gli lascia scampo. In alcuni casi la spinta è così forte da farlo letteralmente saltare fuori dall'acqua! Questo comportamento finora è stato osservato solo negli squali bianchi presenti in un'area ben precisa: la False Bay, davanti a Città del Capo.
Chris Fallows è stato il primo a documentare questa straordinaria capacità e le sue immagini non possono che suscitare ammirazione per questo predatore.
Mi ricordo che la prima volta che vidi un documentario sul grande squalo bianco (avevo nove anni e davanti a me c'era il maestro Jacques Cousteau), mi innamorai di quella creatura all'apparenza feroce. Era bellissimo nella sua estraneità e in quell'indecifrabile espressione dei suoi occhi neri profondissimi ho visto tutto l'oceano, quel mondo così lontano e diverso dal mio.
Ciò che negli altri scatena la paura ha avuto l'effetto di affascinarmi: difficile non ammirarne la potenza, l'eleganza dei movimenti e il carattere solitario che lo rendono una creatura misteriosa.
È come trovarsi di fronte a una leggenda, un mito che conserva ancora il potere di colpire la creatura più temibile di questo pianeta: l'uomo.
Forse è proprio questo che spaventa più di tutto il nostro inconscio: la consapevolezza di trovarsi di fronte a una creatura ancestrale che può rappresentare un pericolo per noi.
Ma cosa si sa veramente di questo dominatore degli oceani?
Si sa che è un pesce cartilagineo (appartenente quindi al gruppo dei Condroitti), ovvero dotato di uno scheletro fatto di cartilagine, più leggero e flessibile.
Si sa anche che appartiene a quella categoria di squali che per sopravvivere deve continuare a nuotare, non solo perché il nuoto gli consente di stare in assetto, ma soprattutto perché permette il passaggio di acqua ossigenata nelle branchie: il movimento infatti spinge l'acqua attraverso le fessure branchiali che si trovano ai lati del capo.
Per lo squalo bianco è fondamentale perché è un gran nuotatore: non è il più veloce tra i suoi, ma di certo è uno dei più costanti. Questo gigante è infatti uno straordinario migratore che può compiere migliaia di chilometri: uno studio condotto in Australia ha permesso di seguire, tramite l'utilizzo di segnali satellitari, alcuni esemplari che dalle coste australiane sono arrivati fino al Sud Africa.
Ma quando necessario, lo squalo bianco è in grado di compiere anche notevoli accelerazioni: le sue prede sono infatti rappresentate da animali molto più veloci come foche, leoni marini, tonni, delfini, che non avrebbero problemi a batterlo in una gara. È per questo che la sua strategia di caccia si basa sull'effetto sorpresa: i momenti migliori sono poco dopo l'alba e il tramonto, quando i raggi del sole, obliqui sulla superficie del mare, ne diminuiscono la visibilità. Lo squalo bianco sfrutta non solo queste particolari condizioni di scarsa luminosità, ma il suo dorso grigio si mimetizza molto bene con l'ambiente circostante rendendolo quasi invisibile visto dall'alto. Si muove infatti in profondità cercando di rimanere sempre sotto le sue prede che soprattutto nel caso dei mammiferi, devono spesso tornare in superficie per respirare. L'attacco è poi fulmineo: un siluro che punta dritto al suo obiettivo e spesso non gli lascia scampo. In alcuni casi la spinta è così forte da farlo letteralmente saltare fuori dall'acqua! Questo comportamento finora è stato osservato solo negli squali bianchi presenti in un'area ben precisa: la False Bay, davanti a Città del Capo.
Chris Fallows è stato il primo a documentare questa straordinaria capacità e le sue immagini non possono che suscitare ammirazione per questo predatore.
Un cacciatore potente ma schivo, che rimane a tutt'oggi avvolto nel mistero.
Infatti molti aspetti della sua biologia rimangono oscuri: si sa che è viviparo (vedere Glossario per definizione), ma nessuno ha ancora assistito al parto di uno squalo bianco. Anche i periodi e i luoghi di riproduzione rimangono solo ipotesi. È come trovarsi di fronte a un grande quadro senza sapere chi e come lo ha dipinto. Vogliamo davvero perdere questa occasione?
Lo squalo bianco, ma con esso molte altre specie di pesci cartilaginei, è considerato a forte rischio di estinzione; ritenerlo uno spietato killer ci ha fatto dimenticare che si tratta di un animale fragile, spaventati dalla sua potenza abbiamo forse pensato che non meritasse il nostro aiuto come invece gli scoiattolini, le tartarughine o i teneri delfini. E invece siamo riusciti a portarlo vicino alla sua scomparsa, grazie alle catture e all'insensato uso delle risorse marine.
Lo squalo bianco si riproduce molto lentamente con una fertilità bassa, non gli stiamo lasciando il tempo sufficiente a rimpinguare le sue esigue popolazioni. Nonostante si tratti di una specie cosmopolita, presente in quasi tutte le acque temperate del pianeta, sembra che le sub-popolazioni delle diverse aree non si incrocino tra di loro.
Nel Mediterraneo gli squali bianchi sono sempre esistiti e se ne ritrovano le tracce persino in antichi testi. Ma lo sfruttamento millenario di questo bacino ha determinato la quasi scomparsa di questo predatore dalle nostre acque. Sono infatti diventati rarissimi gli avvistamenti, sebbene recenti studi abbiano ipotizzato che il Canale di Sicilia possa essere un'area di riproduzione, ma è come se avessero paura di farsi vedere: i pochi che sono rimasti stanno alla larga da un pericoloso divoratore di pesci...
Bisogna però essere sinceri: anch'io avrei un brivido di spavento se dovessi buttarmi in mari abitati da squali bianchi, ma lo spavento non supererebbe mai il rispetto: la Natura non è un gioco fatto su misura per il nostro divertimento, può essere pericolosa, a volte apparire persino spietata ai nostri limitati occhi.
Lo squalo bianco ha attaccato l'uomo, alcune volte ne ha determinato la morte, come gli incidenti stradali: ma chi vorrebbe eliminare le automobili?
Entrare in acqua significa attraversare un confine, e in molte aree del mondo questo è il confine di un mondo diverso, abitato da creature che possono colpirci; dovremmo imparare a sentirci ospiti che a volte possono farsi male. Ma si può convivere con lo squalo bianco?
Sono numerose le realtà che lo dimostrano, come l'Australia e il Sud Africa, zone amate da questi straordinari predatori e le cui leggi lo proteggono, e in cui vengono messe in campo diverse strategie che consentono la convivenza: squadre di soccorritori, a terra e in elicottero, monitorano le aree vicino costa e grazie alla presenza di allarmi, avvertono i bagnanti che così possono uscire dall'acqua indenni. Nel frattempo lo squalo può godersi il suo ambiente in tranquillità senza incappare nella gamba di qualcuno...
E in queste zone, dove il surf e la vita di mare sono irrinunciabili, la convivenza procede da anni con rarissimi incidenti: la gente ne è consapevole e accetta il compromesso di condividere quelle acque con chi ne può essere considerato a tutti gli effetti il padrone.
Sono tante le creature meravigliose che abitano gli oceani, ma lo squalo conserva un fascino particolare, forse perché si tratta di un animale rimasto pressoché invariato negli ultimi 150 milioni di anni! Ma non definitelo perfetto, è un aggettivo che a “mamma Evoluzione” non piacerebbe, diciamo soltanto che grazie agli strumenti che la Natura casualmente gli ha dato, è riuscito ad adattarsi a questo strano mondo...
E con noi ce la farà?
<<Poco di quanto vediamo in natura è nostro.>>
W. Wordsworth
ALICE
Infatti molti aspetti della sua biologia rimangono oscuri: si sa che è viviparo (vedere Glossario per definizione), ma nessuno ha ancora assistito al parto di uno squalo bianco. Anche i periodi e i luoghi di riproduzione rimangono solo ipotesi. È come trovarsi di fronte a un grande quadro senza sapere chi e come lo ha dipinto. Vogliamo davvero perdere questa occasione?
Lo squalo bianco, ma con esso molte altre specie di pesci cartilaginei, è considerato a forte rischio di estinzione; ritenerlo uno spietato killer ci ha fatto dimenticare che si tratta di un animale fragile, spaventati dalla sua potenza abbiamo forse pensato che non meritasse il nostro aiuto come invece gli scoiattolini, le tartarughine o i teneri delfini. E invece siamo riusciti a portarlo vicino alla sua scomparsa, grazie alle catture e all'insensato uso delle risorse marine.
Lo squalo bianco si riproduce molto lentamente con una fertilità bassa, non gli stiamo lasciando il tempo sufficiente a rimpinguare le sue esigue popolazioni. Nonostante si tratti di una specie cosmopolita, presente in quasi tutte le acque temperate del pianeta, sembra che le sub-popolazioni delle diverse aree non si incrocino tra di loro.
Nel Mediterraneo gli squali bianchi sono sempre esistiti e se ne ritrovano le tracce persino in antichi testi. Ma lo sfruttamento millenario di questo bacino ha determinato la quasi scomparsa di questo predatore dalle nostre acque. Sono infatti diventati rarissimi gli avvistamenti, sebbene recenti studi abbiano ipotizzato che il Canale di Sicilia possa essere un'area di riproduzione, ma è come se avessero paura di farsi vedere: i pochi che sono rimasti stanno alla larga da un pericoloso divoratore di pesci...
Bisogna però essere sinceri: anch'io avrei un brivido di spavento se dovessi buttarmi in mari abitati da squali bianchi, ma lo spavento non supererebbe mai il rispetto: la Natura non è un gioco fatto su misura per il nostro divertimento, può essere pericolosa, a volte apparire persino spietata ai nostri limitati occhi.
Lo squalo bianco ha attaccato l'uomo, alcune volte ne ha determinato la morte, come gli incidenti stradali: ma chi vorrebbe eliminare le automobili?
Entrare in acqua significa attraversare un confine, e in molte aree del mondo questo è il confine di un mondo diverso, abitato da creature che possono colpirci; dovremmo imparare a sentirci ospiti che a volte possono farsi male. Ma si può convivere con lo squalo bianco?
Sono numerose le realtà che lo dimostrano, come l'Australia e il Sud Africa, zone amate da questi straordinari predatori e le cui leggi lo proteggono, e in cui vengono messe in campo diverse strategie che consentono la convivenza: squadre di soccorritori, a terra e in elicottero, monitorano le aree vicino costa e grazie alla presenza di allarmi, avvertono i bagnanti che così possono uscire dall'acqua indenni. Nel frattempo lo squalo può godersi il suo ambiente in tranquillità senza incappare nella gamba di qualcuno...
E in queste zone, dove il surf e la vita di mare sono irrinunciabili, la convivenza procede da anni con rarissimi incidenti: la gente ne è consapevole e accetta il compromesso di condividere quelle acque con chi ne può essere considerato a tutti gli effetti il padrone.
Sono tante le creature meravigliose che abitano gli oceani, ma lo squalo conserva un fascino particolare, forse perché si tratta di un animale rimasto pressoché invariato negli ultimi 150 milioni di anni! Ma non definitelo perfetto, è un aggettivo che a “mamma Evoluzione” non piacerebbe, diciamo soltanto che grazie agli strumenti che la Natura casualmente gli ha dato, è riuscito ad adattarsi a questo strano mondo...
E con noi ce la farà?
<<Poco di quanto vediamo in natura è nostro.>>
W. Wordsworth
ALICE
Gli invisibili dominatori degli oceani
Ma
cosa mangiano le balene? Così mi ha chiesto un giorno il mio curioso nipotino,
mentre si parlava dei grandi abitanti degli oceani. Considerando che gli squali
mangiano grosse prede, come possono le gigantesche balene essere innocue? La
logica dei bambini è inoppugnabile, è vero, ma non tiene conto che spesso la
natura agisce in modo “bizzarro”: tanto un animale è grosso, quanto mangia
creature piccolissime. Eh sì, nonostante la stazza, il loro alimento principale
è costituito da animali che sono fino a miliardi di volte più piccoli: gli
organismi del PLANCTON.
La parola viene dal greco e significa “vagabondo” ed è alquanto azzeccato visto che si tratta di organismi molto piccoli incapaci di contrastare con il nuoto attivo le grandi correnti e turbolenze; vi si lasciano trasportare, vagabondando per gli oceani. Si dividono in due grosse categorie: il FITOPLANCTON comprende gli organismi fotosintetici (solitamente microscopiche alghe e batteri) e lo ZOOPLANCTON di cui invece fanno parte animali, dalle forme unicellulari a piccoli vertebrati, come le larve dei pesci. Ma come per i vagabondi, non tutti lo rimangono per la loro intera vita: gli organismi del MEROPLANCTON infatti spendono solo una fase della loro esistenza come parte del plancton, per la restante invece rimangono a stretto contatto con il fondo (sono bentonici).
Gli organismi del plancton solitamente vivono in prossimità della superficie. Il fitoplancton per ovvie ragioni: ha bisogno della luce per fare fotosintesi – il processo che consente di trasformare l'anidride carbonica in zuccheri complessi – e lo zooplancton perché di esso fanno parte sia i consumatori primari (organismi che si nutrono di produttori, in questo caso fitoplancton) che consumatori secondari (le loro prede sono organismi che si nutrono di consumatori primari). Quindi per avere cibo sempre a disposizione anche lo zooplancton deve rimanere nelle acque superficiali. Ma come ci riescono?
Come la maggior parte delle creature che abitano gli oceani, anche quelle del plancton hanno una densità maggiore dell'acqua marina, caratteristica che determina la loro tendenza a precipitare verso il fondo. Una combinazione di fattori fa sì che ciò non accada: molti organismi hanno una forma che ritarda l'affondamento, altri hanno organelli ricchi di sostanze che diminuiscono la loro densità, altri (come la famosa Caravella portoghese) hanno sacche piene di gas che li fanno galleggiare.
Ma ciò che più rallenta il fenomeno è il nuoto: grazie alla presenza di appendici, flagelli, ciglia, gli organismi – soprattutto dello zooplancton – sono in grado di muoversi e creare turbolenze, aiutando così il galleggiamento, ma non sono comunque in grado di contrastare le forti correnti come invece fanno i pesci e i cetacei.
Il plancton non è presente sempre e dappertutto; come tutti gli esseri viventi, ha bisogno di particolari caratteristiche ambientali per sopravvivere e prosperare. I principali fattori da cui dipende sono: temperatura, presenza di nutrienti, salinità e quantità di luce. Ma questi non sono presenti in modo omogeneo e il plancton risulta così caratterizzato da una distribuzione detta “a macchie”: utilizzando una rete da plancton sarà possibile quindi campionare un gran numero di specie in un dato luogo, mentre in una posizione adiacente si potrebbe non catturarne alcuna.
In determinate aree – soprattutto le medie latitudini – la presenza e l'abbondanza del plancton sono hanno un andamento ciclico.
La primavera non è solo la stagione delle rondini e dei nuovi germogli; in alcuni mari significa anche aumento della temperatura dell'acqua e una maggior quantità di luce che determinano una vera “esplosione” (BLOOM) di fitoplancton. Quando questo straordinario incremento raggiunge il suo apice è allora che comincia a proliferare lo zooplancton: dapprima i grazers -ossia quelli che “brucano” sul fitoplancton – e poi via via tutti gli altri, fino a quando diventano abbondanti i pesci zooplanctivori (= che si nutrono di zooplancton).
Quindi arrivata l'estate, l'abbondanza di questi organismi comincia a scemare (si sono mangiati tutti fra di loro!), ma in alcuni casi la loro crescita riprende in autunno, quando si ristabiliscono condizioni favorevoli di luce, temperatura e soprattutto nutrienti (che durante l'esplosione primaverile erano stati consumati).
A volte questa straordinaria proliferazione crea le cosiddette “maree rosse”, esplosioni di fitoplancton così abbondante da colorare l'acqua. Spesso però non rappresentano solo un curioso fenomeno, ma hanno anche risvolti pericolosi: alcune delle specie che generano le maree rosse producono infatti neurotossine in grado di causare problemi anche a l'uomo – nel caso mangi organismi (soprattutto frutti di mare, come cozze e ostriche) che a loro volta si sono nutriti delle alghe tossiche.
Negli ultimi anni si sta assistendo a un incremento di questo fenomeno e indovinate perché?! Le alghe del fitoplancton che danno origine alle maree tossiche hanno bisogno di molti nutrienti per proliferare, e cosa c'è di più sostanzioso dei sempre più numerosi scarichi urbani che impunemente facciamo confluire dalle nostre metropoli verso il mare-discarica?!
Vi ricordate cosa dicevamo a proposito delle meduse? Ecco, le scellerate attività umane stanno rapidamente trasformando il nostro pianeta blu -ricco di vita, di storia e così strettamente legato a noi- in un luogo di morte e desolazione, dove sempre più specie si estinguono, lasciando a spadroneggiare quelle pericolose anche per l'uomo (come le vespe di mare e le alghe tossiche appunto).
Ma prima di affliggerci su questi tristi pensieri, godiamoci la bellezza delle straordinarie creature che compongono il plancton.
FITOPLANCTON: i principali gruppi
DIATOMEE Sono organismi unicellulari dotati di una sorta di conchiglia (un esoscheletro) di silicio, dotata di due valve che si incastrano perfettamente tra loro come un coperchio sulla sua scatola. La conchiglia può essere ricoperta da spine o può essere ornata da una complessa seria di pori e protuberanze.
Le diatomee sono alcuni degli organismi unicellulari più belli e vederli non può non far pensare a delle vere opere d'arte.
La parola viene dal greco e significa “vagabondo” ed è alquanto azzeccato visto che si tratta di organismi molto piccoli incapaci di contrastare con il nuoto attivo le grandi correnti e turbolenze; vi si lasciano trasportare, vagabondando per gli oceani. Si dividono in due grosse categorie: il FITOPLANCTON comprende gli organismi fotosintetici (solitamente microscopiche alghe e batteri) e lo ZOOPLANCTON di cui invece fanno parte animali, dalle forme unicellulari a piccoli vertebrati, come le larve dei pesci. Ma come per i vagabondi, non tutti lo rimangono per la loro intera vita: gli organismi del MEROPLANCTON infatti spendono solo una fase della loro esistenza come parte del plancton, per la restante invece rimangono a stretto contatto con il fondo (sono bentonici).
Gli organismi del plancton solitamente vivono in prossimità della superficie. Il fitoplancton per ovvie ragioni: ha bisogno della luce per fare fotosintesi – il processo che consente di trasformare l'anidride carbonica in zuccheri complessi – e lo zooplancton perché di esso fanno parte sia i consumatori primari (organismi che si nutrono di produttori, in questo caso fitoplancton) che consumatori secondari (le loro prede sono organismi che si nutrono di consumatori primari). Quindi per avere cibo sempre a disposizione anche lo zooplancton deve rimanere nelle acque superficiali. Ma come ci riescono?
Come la maggior parte delle creature che abitano gli oceani, anche quelle del plancton hanno una densità maggiore dell'acqua marina, caratteristica che determina la loro tendenza a precipitare verso il fondo. Una combinazione di fattori fa sì che ciò non accada: molti organismi hanno una forma che ritarda l'affondamento, altri hanno organelli ricchi di sostanze che diminuiscono la loro densità, altri (come la famosa Caravella portoghese) hanno sacche piene di gas che li fanno galleggiare.
Ma ciò che più rallenta il fenomeno è il nuoto: grazie alla presenza di appendici, flagelli, ciglia, gli organismi – soprattutto dello zooplancton – sono in grado di muoversi e creare turbolenze, aiutando così il galleggiamento, ma non sono comunque in grado di contrastare le forti correnti come invece fanno i pesci e i cetacei.
Il plancton non è presente sempre e dappertutto; come tutti gli esseri viventi, ha bisogno di particolari caratteristiche ambientali per sopravvivere e prosperare. I principali fattori da cui dipende sono: temperatura, presenza di nutrienti, salinità e quantità di luce. Ma questi non sono presenti in modo omogeneo e il plancton risulta così caratterizzato da una distribuzione detta “a macchie”: utilizzando una rete da plancton sarà possibile quindi campionare un gran numero di specie in un dato luogo, mentre in una posizione adiacente si potrebbe non catturarne alcuna.
In determinate aree – soprattutto le medie latitudini – la presenza e l'abbondanza del plancton sono hanno un andamento ciclico.
La primavera non è solo la stagione delle rondini e dei nuovi germogli; in alcuni mari significa anche aumento della temperatura dell'acqua e una maggior quantità di luce che determinano una vera “esplosione” (BLOOM) di fitoplancton. Quando questo straordinario incremento raggiunge il suo apice è allora che comincia a proliferare lo zooplancton: dapprima i grazers -ossia quelli che “brucano” sul fitoplancton – e poi via via tutti gli altri, fino a quando diventano abbondanti i pesci zooplanctivori (= che si nutrono di zooplancton).
Quindi arrivata l'estate, l'abbondanza di questi organismi comincia a scemare (si sono mangiati tutti fra di loro!), ma in alcuni casi la loro crescita riprende in autunno, quando si ristabiliscono condizioni favorevoli di luce, temperatura e soprattutto nutrienti (che durante l'esplosione primaverile erano stati consumati).
A volte questa straordinaria proliferazione crea le cosiddette “maree rosse”, esplosioni di fitoplancton così abbondante da colorare l'acqua. Spesso però non rappresentano solo un curioso fenomeno, ma hanno anche risvolti pericolosi: alcune delle specie che generano le maree rosse producono infatti neurotossine in grado di causare problemi anche a l'uomo – nel caso mangi organismi (soprattutto frutti di mare, come cozze e ostriche) che a loro volta si sono nutriti delle alghe tossiche.
Negli ultimi anni si sta assistendo a un incremento di questo fenomeno e indovinate perché?! Le alghe del fitoplancton che danno origine alle maree tossiche hanno bisogno di molti nutrienti per proliferare, e cosa c'è di più sostanzioso dei sempre più numerosi scarichi urbani che impunemente facciamo confluire dalle nostre metropoli verso il mare-discarica?!
Vi ricordate cosa dicevamo a proposito delle meduse? Ecco, le scellerate attività umane stanno rapidamente trasformando il nostro pianeta blu -ricco di vita, di storia e così strettamente legato a noi- in un luogo di morte e desolazione, dove sempre più specie si estinguono, lasciando a spadroneggiare quelle pericolose anche per l'uomo (come le vespe di mare e le alghe tossiche appunto).
Ma prima di affliggerci su questi tristi pensieri, godiamoci la bellezza delle straordinarie creature che compongono il plancton.
FITOPLANCTON: i principali gruppi
DIATOMEE Sono organismi unicellulari dotati di una sorta di conchiglia (un esoscheletro) di silicio, dotata di due valve che si incastrano perfettamente tra loro come un coperchio sulla sua scatola. La conchiglia può essere ricoperta da spine o può essere ornata da una complessa seria di pori e protuberanze.
Le diatomee sono alcuni degli organismi unicellulari più belli e vederli non può non far pensare a delle vere opere d'arte.
DINOFLAGELLATI
Anche i dinoflagellati sono unicellulari e di questo gruppo fanno parte le zooxantelle che, se vi ricordate, sono le alghe simbionti dei polipi che li aiutano a costruire i meravigliosi coralli. Quelle a vita libera sono dotate di una certa mobilità, grazie alla presenza di due flagelli, uno dei quali è situato in un solco che circonda la cellula. Questa generalmente è coperta da una serie di placche di cellulosa contigue che vanno a formare la teca. È dalle specifiche caratteristiche della teca che si possono distinguere le diverse specie. Alcuni dinoflagellati, come quelli appartenenti ai generi Protogonyaulax, Gonyaulax e Gymnodinium sono responsabili delle maree tossiche: questi infatti producono la saxotossina che è in grado di inibire la trasmissione nervosa fino a indurre l'arresto cardiaco. Un altro dinoflagellato, Karenia brevis, produce invece la brevetossina, che però raramente è fatale per l'uomo.
Anche i dinoflagellati sono unicellulari e di questo gruppo fanno parte le zooxantelle che, se vi ricordate, sono le alghe simbionti dei polipi che li aiutano a costruire i meravigliosi coralli. Quelle a vita libera sono dotate di una certa mobilità, grazie alla presenza di due flagelli, uno dei quali è situato in un solco che circonda la cellula. Questa generalmente è coperta da una serie di placche di cellulosa contigue che vanno a formare la teca. È dalle specifiche caratteristiche della teca che si possono distinguere le diverse specie. Alcuni dinoflagellati, come quelli appartenenti ai generi Protogonyaulax, Gonyaulax e Gymnodinium sono responsabili delle maree tossiche: questi infatti producono la saxotossina che è in grado di inibire la trasmissione nervosa fino a indurre l'arresto cardiaco. Un altro dinoflagellato, Karenia brevis, produce invece la brevetossina, che però raramente è fatale per l'uomo.
Coccolitoforide
ina.tmsoc.org
COCCOLITOFORIDI
Anch'essi unicellulari, sono solitamente di forma sferica e coperti da una serie di placche di carbonato di calcio, chiamate coccoliti.
Rappresentano una delle componenti più importanti dei raggruppamenti di fitoplancton e spesso dominano i bloom algali in oceano aperto.
Anch'essi unicellulari, sono solitamente di forma sferica e coperti da una serie di placche di carbonato di calcio, chiamate coccoliti.
Rappresentano una delle componenti più importanti dei raggruppamenti di fitoplancton e spesso dominano i bloom algali in oceano aperto.
Copepode calanoide del genere Acartia
imas.utas.edu.au
ZOOPLANCTON
COPEPODI
Sono piccoli crostacei e rappresentano il gruppo più abbondante nello zooplancton. Le loro dimensioni vanno da 1 a pochi millimetri.All'interno dei Copepodi, sono di certo i Calanoidi i più rappresentati. La forma ricorda una botte e il corpo è composto da capo, torace e addome. Sul capo si trovano solitamente un paio di antenne su cui sono presenti delle ciglia in grado di captare i movimenti dell'acqua. Sul torace e l'addome sono invece posizionate delle appendici utilizzate per il movimento (ricordate, se smettono di muoversi affondano!). Si nutrono principalmente di fitoplancton, ma talvolta anche di organismi dello zooplancton più piccoli.
COPEPODI
Sono piccoli crostacei e rappresentano il gruppo più abbondante nello zooplancton. Le loro dimensioni vanno da 1 a pochi millimetri.All'interno dei Copepodi, sono di certo i Calanoidi i più rappresentati. La forma ricorda una botte e il corpo è composto da capo, torace e addome. Sul capo si trovano solitamente un paio di antenne su cui sono presenti delle ciglia in grado di captare i movimenti dell'acqua. Sul torace e l'addome sono invece posizionate delle appendici utilizzate per il movimento (ricordate, se smettono di muoversi affondano!). Si nutrono principalmente di fitoplancton, ma talvolta anche di organismi dello zooplancton più piccoli.
KRILL
Questo gruppo – sempre di crostacei – rappresenta l'alimento principale dei grandi cetacei e degli squali filtratori di grossa taglia (squalo balena, squalo elefante, squalo megamouth). La parola infatti è norvegese e significa “cibo delle balene”.
Appartengono all'ordine Euphausiacea, sono simili a gamberetti e possono raggiungere la ragguardevole dimensione di 5 cm. Dominano lo zooplancton presente nell'oceano Antartico, ma sono anche comuni in acque ricche di nutrienti in altre parti del mondo. Sono caratterizzati dalla capacità di creare dei veri e propri sciami, assembramenti molto fitti, che si pensa possano essere una risposta alla presenza di fitoplancton (di cui si nutrono) o anche una forma di difesa contro i predatori. Di certo aiuta le balene, che così si ritrovano il loro cibo prelibato tutto raggruppato e loro non devono far altro che spalancare l'enorme bocca...
In Antartide sono fortemente legati alla presenza del ghiaccio: recenti studi hanno infatti dimostrato che una ricca comunità di alghe, protisti e batteri, vive sospesa sotto il ghiaccio e da questa dipende la presenza e sopravvivenza dei grazers come il krill.
La loro abbondanza è cruciale in moltissime reti alimentari dell'oceano aperto: da loro dipendono moltissimi altri organismi e comunità. È facile quindi capire gli effetti devastanti che il surriscaldamento globale sta causando a moltissimi ecosistemi su larga scala: basti pensare allo stretto legame fra ghiaccio e krill e fra krill e grandi cetacei per comprendere quale impatto può avere lo scioglimento dei ghiacci perenni. Nello zooplancton vengono inclusi anche organismi molto più grandi, ma che comunque sono accomunati ai compagni più piccoli dall'incapacità di contrastare le correnti con il nuoto attivo (gli animali in grado di farlo fanno parte del NECTON): le meduse e i loro parenti stretti, gli ctenofori e i sifonofori, le salpe ( che appartengono agli Urocordati).
Questo gruppo – sempre di crostacei – rappresenta l'alimento principale dei grandi cetacei e degli squali filtratori di grossa taglia (squalo balena, squalo elefante, squalo megamouth). La parola infatti è norvegese e significa “cibo delle balene”.
Appartengono all'ordine Euphausiacea, sono simili a gamberetti e possono raggiungere la ragguardevole dimensione di 5 cm. Dominano lo zooplancton presente nell'oceano Antartico, ma sono anche comuni in acque ricche di nutrienti in altre parti del mondo. Sono caratterizzati dalla capacità di creare dei veri e propri sciami, assembramenti molto fitti, che si pensa possano essere una risposta alla presenza di fitoplancton (di cui si nutrono) o anche una forma di difesa contro i predatori. Di certo aiuta le balene, che così si ritrovano il loro cibo prelibato tutto raggruppato e loro non devono far altro che spalancare l'enorme bocca...
In Antartide sono fortemente legati alla presenza del ghiaccio: recenti studi hanno infatti dimostrato che una ricca comunità di alghe, protisti e batteri, vive sospesa sotto il ghiaccio e da questa dipende la presenza e sopravvivenza dei grazers come il krill.
La loro abbondanza è cruciale in moltissime reti alimentari dell'oceano aperto: da loro dipendono moltissimi altri organismi e comunità. È facile quindi capire gli effetti devastanti che il surriscaldamento globale sta causando a moltissimi ecosistemi su larga scala: basti pensare allo stretto legame fra ghiaccio e krill e fra krill e grandi cetacei per comprendere quale impatto può avere lo scioglimento dei ghiacci perenni. Nello zooplancton vengono inclusi anche organismi molto più grandi, ma che comunque sono accomunati ai compagni più piccoli dall'incapacità di contrastare le correnti con il nuoto attivo (gli animali in grado di farlo fanno parte del NECTON): le meduse e i loro parenti stretti, gli ctenofori e i sifonofori, le salpe ( che appartengono agli Urocordati).
Ancora una volta la natura ci dimostra come piccolo non
significa meno importante e soprattutto che la vita è un intero fatto di tante
parti, tutte imprescindibili perché legate strettamente tra di loro.
Dal plancton, invisibile al cieco occhio umano, dipendono creature immense, cicli vitali ed ecosistemi, persino la nostra arrogante razza.
Peccato che non l'abbiamo ancora capito...
ALICE
Dal plancton, invisibile al cieco occhio umano, dipendono creature immense, cicli vitali ed ecosistemi, persino la nostra arrogante razza.
Peccato che non l'abbiamo ancora capito...
ALICE
I pericoli della barriera. Conoscerli per evitarli.
Come abbiamo accennato in uno dei nostri precedenti post, le barriere coralline ospitano la maggior biodiversità del pianeta; bisogna tener presente però che in questi mari vivono anche specie pericolose, velenose e tossiche.
Alcune di esse possono essere potenzialmente mortali per l’uomo ed è fortemente consigliato a chi voglia intraprendere un viaggio in zone tropicali, documentarsi in modo da saper riconoscere tutte le specie pericolose.
Inoltre è bene tenere a mente che spesso la pericolosità di un animale non è proporzionale alle sue dimensioni, anzi generalmente sono gli animali più piccoli la causa di incidenti per subacquei e bagnanti.
Gli incidenti causati da animali marini sono comunque molto rari e la maggior parte di essi dipende dalla disattenzione e dalla superficialità di noi uomini, che spesso invadiamo inopportunamente i territori degli animali.
Basti infatti pensare che la maggior parte degli incidenti sono associati a punture o ad accidentali sfregamenti contro gli apparati difensivi degli animali (coda, aculei, peli ed escrezioni della pelle) e non a quelli offensivi (bocca e denti). E’ quindi possibile affermare che la maggior parte delle ferite inferte dagli animali non deriva da istinto di aggressione.
Cliccando QUI potrete scaricare un pdf con le principali specie pericolose, le loro caratteristiche e alcuni accenni al primo soccorso.
Ed ora diamo un’occhiata insieme ad alcuni di questi intriganti animali.
LE RAZZE
Alcune di esse possono essere potenzialmente mortali per l’uomo ed è fortemente consigliato a chi voglia intraprendere un viaggio in zone tropicali, documentarsi in modo da saper riconoscere tutte le specie pericolose.
Inoltre è bene tenere a mente che spesso la pericolosità di un animale non è proporzionale alle sue dimensioni, anzi generalmente sono gli animali più piccoli la causa di incidenti per subacquei e bagnanti.
Gli incidenti causati da animali marini sono comunque molto rari e la maggior parte di essi dipende dalla disattenzione e dalla superficialità di noi uomini, che spesso invadiamo inopportunamente i territori degli animali.
Basti infatti pensare che la maggior parte degli incidenti sono associati a punture o ad accidentali sfregamenti contro gli apparati difensivi degli animali (coda, aculei, peli ed escrezioni della pelle) e non a quelli offensivi (bocca e denti). E’ quindi possibile affermare che la maggior parte delle ferite inferte dagli animali non deriva da istinto di aggressione.
Cliccando QUI potrete scaricare un pdf con le principali specie pericolose, le loro caratteristiche e alcuni accenni al primo soccorso.
Ed ora diamo un’occhiata insieme ad alcuni di questi intriganti animali.
LE RAZZE
Esistono numerosi tipi di razza, spesso difficili da distinguere, ma la famiglia dasyatis, conosciuta più comunemente come trigone, risulta temibile per la presenza sulla coda di uno o due aculei veleniferi taglienti come rasoi e con lunghezze che possono arrivare ai 37cm L’aculeo difensivo è un rasoio cartilagineo estremamente affilato che può raggiungere i 37 cm di lunghezza. In corrispondenza della spina il tessuto presenta due solchi dove è presente il tessuto ghiandolare che produce il veleno. L’intera spina è ricoperta di uno spesso strato di pelle nel quale si concentra il veleno. L’aculeo cade periodicamente e viene rinnovato.
Le razze difficilmente assumono comportamenti aggressive ed è raro che cerchino di difendersi attivamente. Sono animali molto docili e la loro prima e naturale reazione alla presenza umana è quella di fuggire lontano. Solo quando vengono attaccate dai predatori o accidentalmente calpestate drizzano l’aculeo.
L’aculeo che inietta il potente veleno può rompersi e rimanere all’interno della ferita. Il dolore può durare anche 48 ore, ma è particolarmente acuto nei primi 30-60 minuti e può essere accompagnato da sanguinamento abbondante, nausea, mal di testa, febbre e brividi. Nei casi più gravi possiamo avere ipotensione, svenimenti, tachicardia e crampi muscolari.
Essendo la proteina termolabile (con il calore perde le sue funzionalità), la prima cosa da fare è immergere la parte lesa in acqua molto calda per favorire la denaturazione della complessa tossina e diminuire il dolore; se l’acqua calda non è disponibile cercare qualcosa di caldo come una pietra al sole da mettere sopra la ferita.
Tutte le ferite da razza richiedono assistenza medica perché la ferita deve essere pulita e disinfettata perfettamente anche da sabbia e detriti; spesso può essere consigliato l’intervento chirurgico per la rimozione di eventuali residui non visibili ad occhi nudo. Non esiste un antidoto specifico.
IL CORALLO DI FUOCO
Le razze difficilmente assumono comportamenti aggressive ed è raro che cerchino di difendersi attivamente. Sono animali molto docili e la loro prima e naturale reazione alla presenza umana è quella di fuggire lontano. Solo quando vengono attaccate dai predatori o accidentalmente calpestate drizzano l’aculeo.
L’aculeo che inietta il potente veleno può rompersi e rimanere all’interno della ferita. Il dolore può durare anche 48 ore, ma è particolarmente acuto nei primi 30-60 minuti e può essere accompagnato da sanguinamento abbondante, nausea, mal di testa, febbre e brividi. Nei casi più gravi possiamo avere ipotensione, svenimenti, tachicardia e crampi muscolari.
Essendo la proteina termolabile (con il calore perde le sue funzionalità), la prima cosa da fare è immergere la parte lesa in acqua molto calda per favorire la denaturazione della complessa tossina e diminuire il dolore; se l’acqua calda non è disponibile cercare qualcosa di caldo come una pietra al sole da mettere sopra la ferita.
Tutte le ferite da razza richiedono assistenza medica perché la ferita deve essere pulita e disinfettata perfettamente anche da sabbia e detriti; spesso può essere consigliato l’intervento chirurgico per la rimozione di eventuali residui non visibili ad occhi nudo. Non esiste un antidoto specifico.
IL CORALLO DI FUOCO
Possiamo figurarci questa bella opera d’arte come un gigantesco condominio di polipi, ognuno dei quali, secernendo bicarbonato di calcio, contribuisce a dare la forma alla colonia. La maggior parte delle volte le colonie sono giallo intenso tendenti al verde e sono riconoscibili perché la porzione terminale dei rami sfuma nel bianco.
I coralli di fuoco sono frequenti lungo le barriere coralline di tutti i mari tropicali e subtropicali e sono particolarmente abbondanti nelle regioni indo pacifiche fino ai 40 m di profondità.
Come le meduse, anche i polipi del corallo di fuoco presentano delle cellule specializzate che contengono uno o più filamenti estroflessibili e urticanti che possono essere scaricati per difesa o per catturare le prede. Questi filamenti fungono da aghi per iniettare il veleno. Inoltre i coralli di fuoco hanno uno scheletro esterno molto duro e affilato che facilita le abrasioni sulla pelle.
Nella maggior parte dei casi il contatto con il corallo scatena una reazione acuta simile all'orticaria, 5-30 minuti dopo il contatto la vittima avverte fortissimi bruciori, la zona di pelle interessata diventa rossa e compaiono vesciche e gonfiori associati a prurito.
In caso di contatto è bene sciacquare con acqua di mare evitando l’acqua dolce che farebbe aumentare ulteriormente il dolore, tamponare e disinfettare la ferita con aceto o con altro alcool disinfettante.
BLUE RING OCTOPUS
I coralli di fuoco sono frequenti lungo le barriere coralline di tutti i mari tropicali e subtropicali e sono particolarmente abbondanti nelle regioni indo pacifiche fino ai 40 m di profondità.
Come le meduse, anche i polipi del corallo di fuoco presentano delle cellule specializzate che contengono uno o più filamenti estroflessibili e urticanti che possono essere scaricati per difesa o per catturare le prede. Questi filamenti fungono da aghi per iniettare il veleno. Inoltre i coralli di fuoco hanno uno scheletro esterno molto duro e affilato che facilita le abrasioni sulla pelle.
Nella maggior parte dei casi il contatto con il corallo scatena una reazione acuta simile all'orticaria, 5-30 minuti dopo il contatto la vittima avverte fortissimi bruciori, la zona di pelle interessata diventa rossa e compaiono vesciche e gonfiori associati a prurito.
In caso di contatto è bene sciacquare con acqua di mare evitando l’acqua dolce che farebbe aumentare ulteriormente il dolore, tamponare e disinfettare la ferita con aceto o con altro alcool disinfettante.
BLUE RING OCTOPUS
Il Blue Ring Octopus è uno degli animali più velenosi esistenti al mondo. Il suo corpo, munito di otto braccia, difficilmente supera i 20 cm di lunghezza e i 100 g e pesa in media 25 g.
Normalmente è di colore marrone - giallo scuro allo scopo di mimetizzarsi al meglio col substrato, ma in situazioni di pericolo o di semplice disturbo il suo colore diventa giallo acceso con evidenti anelli blu elettrico che emanano bagliori come segnale di avvertimento.
Generalmente si trova in tane nelle pozze di barriera, sotto i coralli e a pelo dell’acqua.
La vittima viene avvelenata in seguito al morso del polipo; il veleno non viene iniettato, ma è contenuto nella saliva. La saliva proviene da due ghiandole estremamente sviluppate che hanno dimensioni pari a quelle del cervello dell’animale stesso; queste ghiandole contengono batteri in grado di produrre potenti tossine. Ogni ghiandola secerne un veleno particolare: una produce una tossina più blanda, non dannosa per l’uomo e utilizzata per catturare piccoli granchi o gamberetti, l’altra ghiandola, più pericolosa, entra in gioco nella difesa.
Il problema più rilevante è che il morso di questi animali non è doloroso e le vittime spesso non si rendono conto di essere state morse fino all’arrivo dei primi sintomi.
Attenzione, il polipo non attacca, morde solo se calpestato o raccolto!!!
Non è ancora del tutto chiaro come agisca questo tipo di veleno, ma la sua perfidia non causa arresto cardiaco e la vittima muore per soffocamento rimanendo perfettamente cosciente. Non esiste antidoto e l’unico modo per salvare la vittima è garantire la respirazione artificiale fino allo smaltimento del veleno che avviene in circa 24 ore.
PESCE PIETRA
Normalmente è di colore marrone - giallo scuro allo scopo di mimetizzarsi al meglio col substrato, ma in situazioni di pericolo o di semplice disturbo il suo colore diventa giallo acceso con evidenti anelli blu elettrico che emanano bagliori come segnale di avvertimento.
Generalmente si trova in tane nelle pozze di barriera, sotto i coralli e a pelo dell’acqua.
La vittima viene avvelenata in seguito al morso del polipo; il veleno non viene iniettato, ma è contenuto nella saliva. La saliva proviene da due ghiandole estremamente sviluppate che hanno dimensioni pari a quelle del cervello dell’animale stesso; queste ghiandole contengono batteri in grado di produrre potenti tossine. Ogni ghiandola secerne un veleno particolare: una produce una tossina più blanda, non dannosa per l’uomo e utilizzata per catturare piccoli granchi o gamberetti, l’altra ghiandola, più pericolosa, entra in gioco nella difesa.
Il problema più rilevante è che il morso di questi animali non è doloroso e le vittime spesso non si rendono conto di essere state morse fino all’arrivo dei primi sintomi.
Attenzione, il polipo non attacca, morde solo se calpestato o raccolto!!!
Non è ancora del tutto chiaro come agisca questo tipo di veleno, ma la sua perfidia non causa arresto cardiaco e la vittima muore per soffocamento rimanendo perfettamente cosciente. Non esiste antidoto e l’unico modo per salvare la vittima è garantire la respirazione artificiale fino allo smaltimento del veleno che avviene in circa 24 ore.
PESCE PIETRA
.Il pesce pietra
appartiene a una famiglia di pesci caratterizzata da una serie di spine dorsali velenose e da un eccezionale mimetismo. Non è un pesce adatto al nuoto e rimane immobile affondato nella sabbia perfettamente mimetizzato con il fondale. Spesso viene ricoperto da alghe e altri organismi che contribuiscono a cancellarne la presenza.
La sua immobilità rappresenta un'ottima tecnica di caccia; così perfettamente mimetizzato aspetta il passaggio di piccoli pesci e gamberetti che ingoia con uno scatto veloce dell’enorme bocca (l’intera durata dell’attacco è stimata di soli 0.0015 secondi).
Ha una dimensione media di circa 35 cm.
Vive in acque poco profonde , come quelle interne delle lagune e delle scogliere coralline, ma è possibile incontrarlo fino a 40 metri di profondità. Preferisce generalmente i fondali sabbiosi e fangosi, dove può meglio confondersi.
Come accennato, questi pesci presentano 13 spine sulla pinna dorsale: a riposo sono normalmente ripiegate all'indietro, ma in caso di emergenza si drizzano verticalmente rappresentando un grosso pericolo. A ciascuna spina sono collegate due grosse ghiandole velenifere; gli aculei sono muniti da ambo i lati di un solco profondo dal quale sgorga il veleno, una sostanza lattiginosa, che fuoriesce in seguito alla compressione della spina stessa.
Il veleno contiene una potente tossina che svolge una doppia azione: neurotossica ed emolitica. In altre parole, c’è un avvelenamento sia dei centri nervosi, cardiaci e respiratori (con conseguenti asfissia, sincope e arresto del cuore), sia del sangue con distruzione dei globuli rossi. Il veleno causa dolori fortissimi, svenimenti e allucinazioni. Solo raramente può portare alla morte. La ferita è ben riconoscibile perché è formata da più punture chiare ciascuna circondata da aloni blu e tessuto cianotico.
In attesa dei soccorsi, la prima cosa da fare, prima ancora di rimuovere eventuali residui delle spine, è immergere completamente la parte lesa in acqua molto calda (45-50°C) per un tempo che va dai 30 ai 90 minuti; la tossina in questione è termolabile e il trattamento migliore per ridurre il dolore è quello di ridurne in parte l’effetto.
Esiste un antidoto ma si somministra solo nei casi più gravi, quando il dolore è a livelli molto elevati, si presentano sintomi di paralisi o debolezza estrema e quando è stata iniettata una dose molto elevata di veleno.
BETTA
La sua immobilità rappresenta un'ottima tecnica di caccia; così perfettamente mimetizzato aspetta il passaggio di piccoli pesci e gamberetti che ingoia con uno scatto veloce dell’enorme bocca (l’intera durata dell’attacco è stimata di soli 0.0015 secondi).
Ha una dimensione media di circa 35 cm.
Vive in acque poco profonde , come quelle interne delle lagune e delle scogliere coralline, ma è possibile incontrarlo fino a 40 metri di profondità. Preferisce generalmente i fondali sabbiosi e fangosi, dove può meglio confondersi.
Come accennato, questi pesci presentano 13 spine sulla pinna dorsale: a riposo sono normalmente ripiegate all'indietro, ma in caso di emergenza si drizzano verticalmente rappresentando un grosso pericolo. A ciascuna spina sono collegate due grosse ghiandole velenifere; gli aculei sono muniti da ambo i lati di un solco profondo dal quale sgorga il veleno, una sostanza lattiginosa, che fuoriesce in seguito alla compressione della spina stessa.
Il veleno contiene una potente tossina che svolge una doppia azione: neurotossica ed emolitica. In altre parole, c’è un avvelenamento sia dei centri nervosi, cardiaci e respiratori (con conseguenti asfissia, sincope e arresto del cuore), sia del sangue con distruzione dei globuli rossi. Il veleno causa dolori fortissimi, svenimenti e allucinazioni. Solo raramente può portare alla morte. La ferita è ben riconoscibile perché è formata da più punture chiare ciascuna circondata da aloni blu e tessuto cianotico.
In attesa dei soccorsi, la prima cosa da fare, prima ancora di rimuovere eventuali residui delle spine, è immergere completamente la parte lesa in acqua molto calda (45-50°C) per un tempo che va dai 30 ai 90 minuti; la tossina in questione è termolabile e il trattamento migliore per ridurre il dolore è quello di ridurne in parte l’effetto.
Esiste un antidoto ma si somministra solo nei casi più gravi, quando il dolore è a livelli molto elevati, si presentano sintomi di paralisi o debolezza estrema e quando è stata iniettata una dose molto elevata di veleno.
BETTA
Le Meduse: belle e dannate
Trascorrere
le vacanze sulle coste italiane può voler dire non solo avere a che fare con
orde di turisti affamati di mare – e spesso anche molto incivili – ma anche con
creature che suscitano una spontanea paura nella maggior parte di noi: le
meduse.
Ma non è il loro aspetto, piuttosto placido e delicato a dir la verità, quanto la loro efficace capacità di procurare dolore, che ci spaventa.
Questa estate in particolare è stata caratterizzata da una vera e propria invasione nei nostri mari di alcune specie molto belle, due delle quali fortunatamente davvero poco pericolose. In pochi però le sanno riconoscere e così si assiste a una vera e propria “mattanza” di meduse, che adulti tornati bambini portano a riva per lasciarle morire così, sotto un sole impietoso.
Provo pena per queste creature? Certo che sì! Ma d'altra parte è facile comprendere la paura della gente, soprattutto quando si ha a che fare con qualcosa che si conosce poco.
E allora perché non addentrarci un po' di più nel fantastico mondo delle Jellyfishes?
Ma non è il loro aspetto, piuttosto placido e delicato a dir la verità, quanto la loro efficace capacità di procurare dolore, che ci spaventa.
Questa estate in particolare è stata caratterizzata da una vera e propria invasione nei nostri mari di alcune specie molto belle, due delle quali fortunatamente davvero poco pericolose. In pochi però le sanno riconoscere e così si assiste a una vera e propria “mattanza” di meduse, che adulti tornati bambini portano a riva per lasciarle morire così, sotto un sole impietoso.
Provo pena per queste creature? Certo che sì! Ma d'altra parte è facile comprendere la paura della gente, soprattutto quando si ha a che fare con qualcosa che si conosce poco.
E allora perché non addentrarci un po' di più nel fantastico mondo delle Jellyfishes?
FIG.1 Cnidoblasti (cnidociti)
Non
tutti sanno che le meduse sono parenti dei ben più amati polipi (i costruttori
di coralli). Entrambi questi organismi infatti appartengono al phylum Cnidaria
(dal greco knide, ortica + latino aria, simile a, connesso con) che prende
il nome da cnidociti, le cellule che
contengono gli organelli urticanti tipici degli organismi appartenenti a questo
gruppo. Le
meduse più conosciute appartengono alla classe Scyphozoa (dal greco skyphos, coppa): sono tutte
caratterizzate da un corpo a campana, che può però variare in forma,
consistenza, colore e dimensione nelle diverse specie, e dal quale si dipartono
i tentacoli. Questi rappresentano lo strumento principale tramite il quale le
meduse si procurano il cibo.
L'epidermide dei tentacoli è infatti ricca di cnidociti, le cellule che producono le nematocisti: queste sono sottili capsule che contengono un “filo” avvolto a spirale o filamento; su di esso possono essere presenti uncini o spine (Figura 1).
Il meccanismo di rilascio della nematocisti si basa su un gioco di pressioni: la cellula che la contiene è dotata di uno cnidociglio, un vero e proprio “grilletto” che una volta toccato determina l'entrata violenta dell'acqua nella capsula e l'espulsione del filamento, che si rovescia non appena esce. All'estremità rovesciata gli uncini scattano verso l'esterno, come coltelli a serramanico, per iniettare infine il veleno nella sfortunata preda. Ogni tentacolo ne contiene in gran quantità, il che garantisce alla medusa, durante i suoi vagabondaggi marini, di catturare – o perlomeno colpire – tutte le creature che incautamente finiscono fra i suoi letali veli...
Non tutte le nematocisti però contengono veleno, ma il contatto con esse risulta comunque urticante, anche se con diversi livelli di gravità. Spesso, nei confronti dei piccoli pesci o degli organismi che compongono lo zooplanckton e che costituiscono la dieta della gran parte delle meduse, le nematocisti svolgono il ruolo di “trappole”: non penetrano nella preda, ma la avvolgono rapidamente come una molla.
E una volta catturata, come la mangiano? Se ne avete mai osservata una, anche di quelle poverine spiaccicate sulla spiaggia, avrete sicuramente notato l'assenza di mascelle irte di denti aguzzi; anche le meduse però hanno una “bocca”, che si trova sotto la campana al centro.
Una volta stordita, e in alcuni casi uccisa, dal contatto con le nematocisti, la preda viene portata verso l'apertura orale e, una volta ingerita, digerita grazie al rilascio di enzimi digestivi.
Le meduse però non sono affatto arroganti, non amano strafare: le prede sono infatti proporzionali alle loro dimensioni.
E che dimensioni! Dalla gigantesca medusa di Nomura (Nepolimena nomurai) che può raggiungere – e superare – i 2 m di diametro, alle piccolissime – e molto pericolose – meduse Irukandji (Carukia barnesi e Malo kingi) e la cui cupola è di appena un centimetro o poco più.
L'epidermide dei tentacoli è infatti ricca di cnidociti, le cellule che producono le nematocisti: queste sono sottili capsule che contengono un “filo” avvolto a spirale o filamento; su di esso possono essere presenti uncini o spine (Figura 1).
Il meccanismo di rilascio della nematocisti si basa su un gioco di pressioni: la cellula che la contiene è dotata di uno cnidociglio, un vero e proprio “grilletto” che una volta toccato determina l'entrata violenta dell'acqua nella capsula e l'espulsione del filamento, che si rovescia non appena esce. All'estremità rovesciata gli uncini scattano verso l'esterno, come coltelli a serramanico, per iniettare infine il veleno nella sfortunata preda. Ogni tentacolo ne contiene in gran quantità, il che garantisce alla medusa, durante i suoi vagabondaggi marini, di catturare – o perlomeno colpire – tutte le creature che incautamente finiscono fra i suoi letali veli...
Non tutte le nematocisti però contengono veleno, ma il contatto con esse risulta comunque urticante, anche se con diversi livelli di gravità. Spesso, nei confronti dei piccoli pesci o degli organismi che compongono lo zooplanckton e che costituiscono la dieta della gran parte delle meduse, le nematocisti svolgono il ruolo di “trappole”: non penetrano nella preda, ma la avvolgono rapidamente come una molla.
E una volta catturata, come la mangiano? Se ne avete mai osservata una, anche di quelle poverine spiaccicate sulla spiaggia, avrete sicuramente notato l'assenza di mascelle irte di denti aguzzi; anche le meduse però hanno una “bocca”, che si trova sotto la campana al centro.
Una volta stordita, e in alcuni casi uccisa, dal contatto con le nematocisti, la preda viene portata verso l'apertura orale e, una volta ingerita, digerita grazie al rilascio di enzimi digestivi.
Le meduse però non sono affatto arroganti, non amano strafare: le prede sono infatti proporzionali alle loro dimensioni.
E che dimensioni! Dalla gigantesca medusa di Nomura (Nepolimena nomurai) che può raggiungere – e superare – i 2 m di diametro, alle piccolissime – e molto pericolose – meduse Irukandji (Carukia barnesi e Malo kingi) e la cui cupola è di appena un centimetro o poco più.
Le
specie presenti nei nostri mari hanno dimensioni medie; la Cassiopea
mediterranea (Cothyloriza tubercolata) e il Polmone di mare (Rhizostoma pulmo)
sono tra le più grandi: la prima infatti può raggiungere i 30 cm di diametro; la
seconda, come direbbe il famoso Attila di Abantantuono, è una medusa “grassuttella
prepotente” che può arrivare a 50-60 cm di diametro e i 10 kg di peso.Oltre
a essere molto belle, sono sostanzialmente innocue: il contatto con entrambe
infatti provoca infatti solo un leggero fastidio, che passa in pochissimo
tempo.
Una nostra medusa da tenere invece sott’occhio è la Pelagia noctiluca: più piccola delle precedenti – il diametro dell’ombrello è di circa 10 cm – è dotata però di 8 lunghi tentacoli retrattili molto urticanti che possono raggiungere i 2 m di lunghezza!
Il contatto con questa splendida e temibile creature provoca effetti molto più seri rispetto alla Cassiopea e al Polmone di mare, che possono protrarsi anche per due settimane, lasciando evidenti cicatrici. L’entità è però individuale, arrivando fino a generare reazioni allergiche molto intense. Ma niente paura, non è letale!
Una nostra medusa da tenere invece sott’occhio è la Pelagia noctiluca: più piccola delle precedenti – il diametro dell’ombrello è di circa 10 cm – è dotata però di 8 lunghi tentacoli retrattili molto urticanti che possono raggiungere i 2 m di lunghezza!
Il contatto con questa splendida e temibile creature provoca effetti molto più seri rispetto alla Cassiopea e al Polmone di mare, che possono protrarsi anche per due settimane, lasciando evidenti cicatrici. L’entità è però individuale, arrivando fino a generare reazioni allergiche molto intense. Ma niente paura, non è letale!
Chironex fleckeri
oceana.org
Fortunatamente
nei nostri mari non esistono specie in grado di uccidere l’uomo; per trovare
tali esemplari bisogna prendere un aereo e volare fino in Australia – terra meravigliosa
ma piena di insidie animali e vegetali – lungo le cui calde coste tropicali, un flagello trasparente compare stagionalmente: la vespa di mare
(Chironex fleckeri).
Questa
medusa, che può raggiungere le dimensioni di un pallone da basket e dotata di 60
tentacoli retrattili che durante la caccia si allungano fino a 3 m, è
considerata uno degli animali più pericolosi al mondo: sebbene esista un
antidoto al suo veleno, molte delle persone che vi entrano in contatto
purtroppo non sopravvivono.
La vespa di mare, come le meduse Ikurandji, appartengono però alla classe Cubozoa, le cui specie sono caratterizzate da un ombrello che in sezione risulta squadrato (da qui il nome) ed è a questo gruppo che appartengono le specie più pericolose.
La vespa di mare, come le meduse Ikurandji, appartengono però alla classe Cubozoa, le cui specie sono caratterizzate da un ombrello che in sezione risulta squadrato (da qui il nome) ed è a questo gruppo che appartengono le specie più pericolose.
Considerando
il coraggio dimostrato dai villeggianti sulle nostre coste nel rimuovere i
pericolosissimi esemplari di Rhizostoma pulmo, vorrei sfidarli a fare la
medesima cosa con le vespe di mare: in questa battaglia, nell’eterna guerra tra
uomo e mare, le meduse ne uscirebbero vincitrici.
Nonostante tutti gli sforzi che la nostra specie profonde ogni giorno nella distruzione del pianeta, sembra che le meduse ne beneficino: la scomparsa dei grandi predatori che hanno il ruolo di controllori dell’ambiente, sovrapescati per farci il sushi, uccisi perché li troviamo brutti o pericolosi o incidenti sul nostro percorso verso la gloria, determina una proliferazione di questi animali, la cui facilità di riproduzione e la resistenza ne rende difficile il controllo.
Quando ci spaventiamo vedendo una medusa in mare e la portiamo fuori dentro a un secchiello per lasciarla morire al sole, tirando infine un sospiro di sollievo –“un problema in meno!”- non ci rendiamo conto di fronteggiare in realtà un pericolo molto più grande e impossibile da eliminare con un semplice secchiello: la nostra irresponsabilità nei confronti del mare.
Nonostante la paura che normalmente ispirano animali in grado di ferirci - non solo fisicamente, ma in qualche modo anche colpendo il nostro ego di "padroni invincibili del mondo"- spero riuscirete a vedere anche in queste creature una bellezza straordinaria, che non ha niente di divino, ma è piuttosto frutto di un'artista inconsapevolmente bravo: l'evoluzione.
ALICE
Nonostante tutti gli sforzi che la nostra specie profonde ogni giorno nella distruzione del pianeta, sembra che le meduse ne beneficino: la scomparsa dei grandi predatori che hanno il ruolo di controllori dell’ambiente, sovrapescati per farci il sushi, uccisi perché li troviamo brutti o pericolosi o incidenti sul nostro percorso verso la gloria, determina una proliferazione di questi animali, la cui facilità di riproduzione e la resistenza ne rende difficile il controllo.
Quando ci spaventiamo vedendo una medusa in mare e la portiamo fuori dentro a un secchiello per lasciarla morire al sole, tirando infine un sospiro di sollievo –“un problema in meno!”- non ci rendiamo conto di fronteggiare in realtà un pericolo molto più grande e impossibile da eliminare con un semplice secchiello: la nostra irresponsabilità nei confronti del mare.
Nonostante la paura che normalmente ispirano animali in grado di ferirci - non solo fisicamente, ma in qualche modo anche colpendo il nostro ego di "padroni invincibili del mondo"- spero riuscirete a vedere anche in queste creature una bellezza straordinaria, che non ha niente di divino, ma è piuttosto frutto di un'artista inconsapevolmente bravo: l'evoluzione.
ALICE
Le barriere coralline, piccola introduzione.
Le barriere coralline sono formazioni tipiche dei mari e degli oceani tropicali.
Sono infatti diffuse in tutta la fascia intertropicale fra i 30° di latitudine nord e i 30° di latitudine sud, laddove la temperatura dell’acqua difficilmente scende sotto i 20°C e si aggira intorno ai 23°C, ossia la temperatura ottimale per il loro sviluppo.
Le aree maggiormente interessate da tali formazioni sono il Mar Rosso, L’Oceano Indiano (Africa e India), l’arcipelago della Sonda, l’Australia settentrionale, la Polinesia e le Antille con una superficie totale di circa 600.000 km2.
L’immagine qui a lato mostra la distribuzione delle barriere coralline nei mari del mon
Sono infatti diffuse in tutta la fascia intertropicale fra i 30° di latitudine nord e i 30° di latitudine sud, laddove la temperatura dell’acqua difficilmente scende sotto i 20°C e si aggira intorno ai 23°C, ossia la temperatura ottimale per il loro sviluppo.
Le aree maggiormente interessate da tali formazioni sono il Mar Rosso, L’Oceano Indiano (Africa e India), l’arcipelago della Sonda, l’Australia settentrionale, la Polinesia e le Antille con una superficie totale di circa 600.000 km2.
L’immagine qui a lato mostra la distribuzione delle barriere coralline nei mari del mon
Su scala verticale possiamo dire che le barriere si estendono nel piano infralitorale, ossia da pochi cm fino a dove riesce a penetrare le luce. Nella maggior parte dei mari (compreso il nostro Mediterraneo) questo piano è caratterizzato dalla presenza di alghe fotofile e piante marine, ma sulle barriere coralline i popolamenti più rilevanti sono colonie animali.
In particolare si tratta di madrepore, colonie di piccoli polipi dotati di uno scheletro calcareo esterno che si estendono formando la base per lo sviluppo della biodiversità della barriera.
Le madrepore sono presenti in tutti i mari del mondo ma, mentre nei mari e freddi e temperati costituiscono piccole colonie isolate, nei mari tropicali e subtropicali assumono un notevole sviluppo.
Questo è dovuto all’interazione (simbiosi) delle madrepore con delle alghe unicellulari chiamate zooxantelle che si nutrono delle secrezioni della madrepora e permettono la deposizione del carbonato di calcio e la conseguente formazione del reef. Sono inoltre le zooxantelle a “colorare” le barriere coralline.
Affinchè avvenga questa simbiosi, oltre alla già citata temperatura (che deve aggirarsi intorno ai 23°C), è necessario che ci sia un’elevata salinità ed un elevato idrodinamismo in modo che vi sia un continuo apporto di particelle alimentari di cui i polipi delle madrepore si nutrono.
Sotto un paio di esempi di madrepore.
In particolare si tratta di madrepore, colonie di piccoli polipi dotati di uno scheletro calcareo esterno che si estendono formando la base per lo sviluppo della biodiversità della barriera.
Le madrepore sono presenti in tutti i mari del mondo ma, mentre nei mari e freddi e temperati costituiscono piccole colonie isolate, nei mari tropicali e subtropicali assumono un notevole sviluppo.
Questo è dovuto all’interazione (simbiosi) delle madrepore con delle alghe unicellulari chiamate zooxantelle che si nutrono delle secrezioni della madrepora e permettono la deposizione del carbonato di calcio e la conseguente formazione del reef. Sono inoltre le zooxantelle a “colorare” le barriere coralline.
Affinchè avvenga questa simbiosi, oltre alla già citata temperatura (che deve aggirarsi intorno ai 23°C), è necessario che ci sia un’elevata salinità ed un elevato idrodinamismo in modo che vi sia un continuo apporto di particelle alimentari di cui i polipi delle madrepore si nutrono.
Sotto un paio di esempi di madrepore.
Le scogliere coralline, a causa delle loro anfrattuosità, permettono l’esistenza di numerosi micro-ambienti ideali per lo sviluppo e la coesistenza di numerosissime specie sessili e non.
Inoltre, bisogna tener presente che nei mari tropicali i nutrienti, ossia il cibo, scarseggiano; questo fa si che in mare aperto il plancton (che è alla base della catena alimentare) non è abbondante e di conseguenza la vita si concentra in strutture come le barriere coralline che offrono cibo, riparo e protezione a migliaia di specie.
Inoltre, bisogna tener presente che nei mari tropicali i nutrienti, ossia il cibo, scarseggiano; questo fa si che in mare aperto il plancton (che è alla base della catena alimentare) non è abbondante e di conseguenza la vita si concentra in strutture come le barriere coralline che offrono cibo, riparo e protezione a migliaia di specie.
Le barriere presentano diverse tipologie di sviluppo in base al moto ondoso, al tipo di corrente e al rapporto con la terra ferma. La struttura di base è rappresentata dalla barriera di frangente che generalmente si sviluppa parallelamente alla costa e che presenta una distribuzione verticale (es. Mar Rosso); un’evoluzione di questa struttura è rappresentata dalle barriere di piattaforma, separate dalle coste da un braccio di mare di varia estensione (es. grande barriera australiana).
L’atollo corallino, infine è un altro tipo di sviluppo del reef che avviene in pieno oceano, in seguito alla distruzione del cono di un vulcano; parte delle pareti del vulcano rimangono in superficie delimitando una zona interna che viene occupata dall’acqua formando una laguna. Gli atolli rappresentano il massimo sviluppo delle formazioni madreporiche (es.Maldive).
L’atollo corallino, infine è un altro tipo di sviluppo del reef che avviene in pieno oceano, in seguito alla distruzione del cono di un vulcano; parte delle pareti del vulcano rimangono in superficie delimitando una zona interna che viene occupata dall’acqua formando una laguna. Gli atolli rappresentano il massimo sviluppo delle formazioni madreporiche (es.Maldive).
Nei prossimi post tratteremo tutti i rischi legati a questo meraviglioso ambiente e impareremo a riconoscere e a trattare alcune delle specie pericolose e velenose presenti in questo ambiente.
Alla prossima puntata…
BETTA
Alla prossima puntata…
BETTA
I "camini" abissali: fantascienza o magia della biologia?
www.whoi.edu
Se
dovessi scegliere dove ambientare un grande romanzo di fantascienza, non avrei
dubbi: sceglierei gli abissi, una delle ultime frontiere della conoscenza,
tanto più intrigante proprio perché così vicina a noi.
Chi, prendendo un traghetto, non si è mai sporto dal parapetto lasciando che lo sguardo tentasse di raggiungere il fondo di quel blu?
Alcune persone ci hanno provato davvero ed è grazie a loro, gli Indiana Jones degli oceani, che possiamo finalmente aprire una finestra su un mondo straordinario: gli abissi.
Come sulla terra, anche nei mari la vita è strettamente legata all'ambiente fisico; quello che si pensa sia una piana desertica assolutamente desolata è in realtà un'armonia di forme complesse: canyons, fosse, dorsali, vulcani, seamounts, sono strutture che influenzano profondamente la distribuzione e la ricchezza di specie; sotto la superficie c'è tutto un mondo, altro che Marte!
E pulsa, si muove, non sta mai fermo: nuovo fondo oceanico continuamente si forma in prossimità delle dorsali, grandi spaccature della crosta terrestre – la più lunga e importante è quella medio-atlantica – e continuamente viene “mangiato” dalle fosse – la più profonda è quella delle Marianne, 11098 m - , in cui sprofonda per essere rigenerato.
Luoghi estremi, degni appunto di una mente fantascientifica; chi mai penserebbe di trovarci delle creature viventi?! Non se lo aspettavano di certo i ricercatori della spedizione che nel 1977 a bordo del batiscafo Alvin scesero sulla dorsale delle Galapagos, a 2500 m di profondità. Erano andati in cerca delle sorgenti calde, di cui avevano già predetto l'esistenza: in queste “terme degli abissi”, l'acqua fredda entra nelle spaccature della crosta oceanica incontrando il magma e arricchendosi di sostanze disciolte; diventa infatti così calda e acida da sciogliere i metalli contenuti nelle rocce su cui passa. Spesso fuoriesce sotto forma di un denso fumo nero ad altissima temperatura (350°C) e quando viene a contatto con l'acqua ghiacciata, oltre a rendere più mite la temperatura circostante, i solfuri di ferro e i metalli precipitano creando delle enormi strutture elevate che vengono chiamate camini idrotermali (idrothermal vents o Black Smokers in inglese). Scegliereste mai un posto del genere per vivere? Ma la Natura è meno schizzinosa di noi...
Quando i due geologi Edmond e Corliss a bordo dell'Alvin arrivarono in prossimità di queste strutture, gli parve di essere di fronte a un miraggio; dopo aver attraversato un deserto di basalto, si trovarono al cospetto di un'oasi straordinaria: sui fianchi dei camini era un brulicare di vita incredibile, bivalvi enormi lunghi 15 cm, anemoni, grossi granchi bianchi e le creature diventate simbolo di queste comunità, i vermi tubicoli giganti (Riftia pachyptila). Questi anellidi color rosso sangue vivono in tubi che secernono loro stessi e che possono raggiungere i 2 m di altezza; sono talmente bizzarri che si è dovuto creare un gruppo tassonomico tutto per loro: non hanno né bocca né tubo digerente. Ma allora come vivono? E come vivono tutti gli altri organismi che si arrabattano lì intorno? Per secoli si era pensato che la vita potesse esistere fin dove arrivava la luce: questa infatti è il motore della fotosintesi e sostiene le piante che rappresentano la base della rete alimentare.
Ma laggiù, a 2500 m, il buio è totale. Quale altro motore energetico può sopperire alla mancanza della luce del sole? Inizialmente i ricercatori ipotizzarono che, come altre comunità abissali, anche questo ecosistema basasse la sua sopravvivenza sulla cosiddetta neve marina. Ma l’enorme densità di organismi non poteva essere spiegata con un apporto di cibo così scarso e variabile.
Le spedizioni successive si accorsero della massiccia presenza di folte comunità batteriche; erano forse loro la portata principale?
Questi batteri crescono formando delle lamine su cui si nutrono direttamente anfipodi e copepodi, mentre gli organismi più grandi, come granchi, polpi, bivalvi, pesci, creano una rete alimentare basata sulla relazione preda-predatore. E i grandi vermi tubicoli? Loro non hanno né bocca né apparato digerente, eppure rappresentano la biomassa maggiore di questa comunità.
La scoperta strabiliante della giovane ricercatrice Colleen Cavanaugh mostra ancora una volta la genialità della natura: tutti gli esemplari di Riftia pachyptila si nutrono delle sostanze rilasciate dai batteri che vivono all’interno del loro corpo. Si tratta di batteri CHEMOSINTETICI, ovvero in grado di utilizzare una fonte inorganica (i solfuri presenti nell’acqua che fuoriesce dai camini) e di trasformarla in “zuccheri” (composti organici a base di carbonio e idrogeno), che rappresentano la base del sostentamento della gran parte degli esseri viventi sulla Terra.
Günter Wächtershäuse, un chimico diventato poi avvocato, traendo ispirazione proprio dalla scoperta delle comunità dei Black Smokers, propose la teoria del “mondo a ferro-zolfo” che postulava un’origine idrotermale della vita sulla Terra.
La sua è una delle diverse ipotesi che cercano di spiegare la formazione di molecole complesse nell’ambito della teoria dell’abiogenesi, ovvero l’origine della vita a partire da materiale non vivente.
Ma tralasciando per un attimo le teorie, è indubbio il fascino esercitato da una scoperta che ha il sapore di un viaggio nel tempo: i camini idrotermali richiamano nello spirito di chi li osserva qualcosa di ancestrale, che appartiene a ogni essere vivente, alla sua storia. E nello stesso tempo rappresentano una realtà così remota da suscitare in noi la meraviglia dell'ignoto.
Non c'è niente di meglio dell'oceano per chi vuole saziare la sua sete di meraviglie, per chi ama la vita in tutte le sue forme... e per chi guarda oltre i parapetti delle navi sperando di vedere qualche mostro!
A volte la realtà supera la fantasia!
ALICE
Chi, prendendo un traghetto, non si è mai sporto dal parapetto lasciando che lo sguardo tentasse di raggiungere il fondo di quel blu?
Alcune persone ci hanno provato davvero ed è grazie a loro, gli Indiana Jones degli oceani, che possiamo finalmente aprire una finestra su un mondo straordinario: gli abissi.
Come sulla terra, anche nei mari la vita è strettamente legata all'ambiente fisico; quello che si pensa sia una piana desertica assolutamente desolata è in realtà un'armonia di forme complesse: canyons, fosse, dorsali, vulcani, seamounts, sono strutture che influenzano profondamente la distribuzione e la ricchezza di specie; sotto la superficie c'è tutto un mondo, altro che Marte!
E pulsa, si muove, non sta mai fermo: nuovo fondo oceanico continuamente si forma in prossimità delle dorsali, grandi spaccature della crosta terrestre – la più lunga e importante è quella medio-atlantica – e continuamente viene “mangiato” dalle fosse – la più profonda è quella delle Marianne, 11098 m - , in cui sprofonda per essere rigenerato.
Luoghi estremi, degni appunto di una mente fantascientifica; chi mai penserebbe di trovarci delle creature viventi?! Non se lo aspettavano di certo i ricercatori della spedizione che nel 1977 a bordo del batiscafo Alvin scesero sulla dorsale delle Galapagos, a 2500 m di profondità. Erano andati in cerca delle sorgenti calde, di cui avevano già predetto l'esistenza: in queste “terme degli abissi”, l'acqua fredda entra nelle spaccature della crosta oceanica incontrando il magma e arricchendosi di sostanze disciolte; diventa infatti così calda e acida da sciogliere i metalli contenuti nelle rocce su cui passa. Spesso fuoriesce sotto forma di un denso fumo nero ad altissima temperatura (350°C) e quando viene a contatto con l'acqua ghiacciata, oltre a rendere più mite la temperatura circostante, i solfuri di ferro e i metalli precipitano creando delle enormi strutture elevate che vengono chiamate camini idrotermali (idrothermal vents o Black Smokers in inglese). Scegliereste mai un posto del genere per vivere? Ma la Natura è meno schizzinosa di noi...
Quando i due geologi Edmond e Corliss a bordo dell'Alvin arrivarono in prossimità di queste strutture, gli parve di essere di fronte a un miraggio; dopo aver attraversato un deserto di basalto, si trovarono al cospetto di un'oasi straordinaria: sui fianchi dei camini era un brulicare di vita incredibile, bivalvi enormi lunghi 15 cm, anemoni, grossi granchi bianchi e le creature diventate simbolo di queste comunità, i vermi tubicoli giganti (Riftia pachyptila). Questi anellidi color rosso sangue vivono in tubi che secernono loro stessi e che possono raggiungere i 2 m di altezza; sono talmente bizzarri che si è dovuto creare un gruppo tassonomico tutto per loro: non hanno né bocca né tubo digerente. Ma allora come vivono? E come vivono tutti gli altri organismi che si arrabattano lì intorno? Per secoli si era pensato che la vita potesse esistere fin dove arrivava la luce: questa infatti è il motore della fotosintesi e sostiene le piante che rappresentano la base della rete alimentare.
Ma laggiù, a 2500 m, il buio è totale. Quale altro motore energetico può sopperire alla mancanza della luce del sole? Inizialmente i ricercatori ipotizzarono che, come altre comunità abissali, anche questo ecosistema basasse la sua sopravvivenza sulla cosiddetta neve marina. Ma l’enorme densità di organismi non poteva essere spiegata con un apporto di cibo così scarso e variabile.
Le spedizioni successive si accorsero della massiccia presenza di folte comunità batteriche; erano forse loro la portata principale?
Questi batteri crescono formando delle lamine su cui si nutrono direttamente anfipodi e copepodi, mentre gli organismi più grandi, come granchi, polpi, bivalvi, pesci, creano una rete alimentare basata sulla relazione preda-predatore. E i grandi vermi tubicoli? Loro non hanno né bocca né apparato digerente, eppure rappresentano la biomassa maggiore di questa comunità.
La scoperta strabiliante della giovane ricercatrice Colleen Cavanaugh mostra ancora una volta la genialità della natura: tutti gli esemplari di Riftia pachyptila si nutrono delle sostanze rilasciate dai batteri che vivono all’interno del loro corpo. Si tratta di batteri CHEMOSINTETICI, ovvero in grado di utilizzare una fonte inorganica (i solfuri presenti nell’acqua che fuoriesce dai camini) e di trasformarla in “zuccheri” (composti organici a base di carbonio e idrogeno), che rappresentano la base del sostentamento della gran parte degli esseri viventi sulla Terra.
Günter Wächtershäuse, un chimico diventato poi avvocato, traendo ispirazione proprio dalla scoperta delle comunità dei Black Smokers, propose la teoria del “mondo a ferro-zolfo” che postulava un’origine idrotermale della vita sulla Terra.
La sua è una delle diverse ipotesi che cercano di spiegare la formazione di molecole complesse nell’ambito della teoria dell’abiogenesi, ovvero l’origine della vita a partire da materiale non vivente.
Ma tralasciando per un attimo le teorie, è indubbio il fascino esercitato da una scoperta che ha il sapore di un viaggio nel tempo: i camini idrotermali richiamano nello spirito di chi li osserva qualcosa di ancestrale, che appartiene a ogni essere vivente, alla sua storia. E nello stesso tempo rappresentano una realtà così remota da suscitare in noi la meraviglia dell'ignoto.
Non c'è niente di meglio dell'oceano per chi vuole saziare la sua sete di meraviglie, per chi ama la vita in tutte le sue forme... e per chi guarda oltre i parapetti delle navi sperando di vedere qualche mostro!
A volte la realtà supera la fantasia!
ALICE
Un mare di plastica
Non è nella mia natura ingigantire i problemi né tanto meno urlare allo scandalo, ma questo è un dato di fatto Signori: i mari di tutto il mondo, compreso il nostro amato Mediterraneo, si stanno trasformando in un immondezzaio.
Basta camminare su una spiaggia dopo una bella mareggiata invernale per rendersi tristemente conto in quante forme, colori e dimensioni diverse può essere presente la plastica (nella foto accanto, la spiaggia di Marina di Vecchiano (PI), prima della stagione balneare).
Ma da dove arrivano tutti questi rifiuti? La maggior parte provengono dalle discariche dislocate lungo le coste o lungo il corso dei fiumi, dagli scarichi industriali, dalle acque di scarico cittadine e dall'attività dell'uomo, sia ludica (si pensi ad un semplice picnic in riva al mare con posate, piatti e bicchieri di plastica che spesso vengono "dimenticati" in spiaggia), sia lavorativa (le cassette di polistirolo utilizzate dai pescatori, per esempio, sono tra i rifiuti galleggianti più visibili in mare).
Ma non solo: anche il traffico marino mercantile, turistico e da diporto influiscono molto sulla presenza di rifiuti in mare, specialmente su quelli che col tempo si depositano sui fondali.
Non dimentichiamoci inoltre che tutti i fiumi, prima o poi, confluiscono nei mari e che, così facendo, convogliano in essi ogni genere di immondizia proveniente dall'entroterra.
Il nostro povero Mediterraneo, inoltre, per le sue caratteristiche è ritenuto ad alto rischio per l ’accumulo di plastica. Infatti, il suo ricambio idrico attraverso lo stretto di Gibilterra (largo appena 13 km e profondo circa 300 m) è estremamente lento: le acque superficiali sono ricambiate ogni 80-90 anni mentre si stima che l’intero volume venga rinnovato in un arco di tempo di circa 7500 anni. Tali caratteristiche favoriscono l’accumulo di queste sostanze in superficie, nella colonna d’acqua e nei sedimenti dei fondali.
Inoltre, l’alta densità della popolazione sulle coste influisce sulla presenza di materiali non biodegradabili nelle acque dei nostri mari.
E ora diamo i numeri!
Diverse fonti, tra cui quella attendibile dell' Unep (United Nation Environment Program), riportano che la plastica rappresenta il 60-80% dei rifiuti rinvenuti in mare con punte, in alcune aree, del 90-95%.
In particolare, vi riporto una tabella risultante da un'ampio studio ( pdf in allegato in fondo al post) eseguito per l'Unep dell' ICC (International Coastal Clean up) tra il 2002 e il 2006; da cui possiamo vedere quali sono le tipologie di rifiuto più frequenti legate alle attività costiere nel Mar Mediterraneo.
Basta camminare su una spiaggia dopo una bella mareggiata invernale per rendersi tristemente conto in quante forme, colori e dimensioni diverse può essere presente la plastica (nella foto accanto, la spiaggia di Marina di Vecchiano (PI), prima della stagione balneare).
Ma da dove arrivano tutti questi rifiuti? La maggior parte provengono dalle discariche dislocate lungo le coste o lungo il corso dei fiumi, dagli scarichi industriali, dalle acque di scarico cittadine e dall'attività dell'uomo, sia ludica (si pensi ad un semplice picnic in riva al mare con posate, piatti e bicchieri di plastica che spesso vengono "dimenticati" in spiaggia), sia lavorativa (le cassette di polistirolo utilizzate dai pescatori, per esempio, sono tra i rifiuti galleggianti più visibili in mare).
Ma non solo: anche il traffico marino mercantile, turistico e da diporto influiscono molto sulla presenza di rifiuti in mare, specialmente su quelli che col tempo si depositano sui fondali.
Non dimentichiamoci inoltre che tutti i fiumi, prima o poi, confluiscono nei mari e che, così facendo, convogliano in essi ogni genere di immondizia proveniente dall'entroterra.
Il nostro povero Mediterraneo, inoltre, per le sue caratteristiche è ritenuto ad alto rischio per l ’accumulo di plastica. Infatti, il suo ricambio idrico attraverso lo stretto di Gibilterra (largo appena 13 km e profondo circa 300 m) è estremamente lento: le acque superficiali sono ricambiate ogni 80-90 anni mentre si stima che l’intero volume venga rinnovato in un arco di tempo di circa 7500 anni. Tali caratteristiche favoriscono l’accumulo di queste sostanze in superficie, nella colonna d’acqua e nei sedimenti dei fondali.
Inoltre, l’alta densità della popolazione sulle coste influisce sulla presenza di materiali non biodegradabili nelle acque dei nostri mari.
E ora diamo i numeri!
Diverse fonti, tra cui quella attendibile dell' Unep (United Nation Environment Program), riportano che la plastica rappresenta il 60-80% dei rifiuti rinvenuti in mare con punte, in alcune aree, del 90-95%.
In particolare, vi riporto una tabella risultante da un'ampio studio ( pdf in allegato in fondo al post) eseguito per l'Unep dell' ICC (International Coastal Clean up) tra il 2002 e il 2006; da cui possiamo vedere quali sono le tipologie di rifiuto più frequenti legate alle attività costiere nel Mar Mediterraneo.
Facciamoci un esamino di coscienza...
E poi, diciamocela tutta, anche i più scettici ed insensibili alle problematiche ambientali non potranno che essere d'accordo: il problema è anche di carattere estetico! Quanto è bello dover liberare il proprio angolino di spiaggia da mozziconi e cannucce dei succhi di frutta per poter distendere il nostro asciugamano?
E ora un'altro bel numero: nel Mediterraneo galleggiano circa 500 tonnellate di rifiuti plastici. E' questo il risultato della campagna "Expedition Med", portata avanti nel 2010 da ricercatori di Francia e Belgio. La concentrazione di frammenti plastici riscontrata nella zona marina a largo di Spagna, Francia e nord Italia, risulta essere addirittura più alta di quella che riguarda i cosiddetti “continenti spazzatura” presenti nell’ Oceano Pacifico di cui vi parlerò a breve.
Un grande aiuto alla raccolta di dati sulla presenza di rifiuti in mare arriva dalle campagne scientifiche di pesca che, secondo protocollo UE, sono tenute a registrare, oltre ai dati sul pescato, anche il quantitativo di rifiuti antropici raccolti durante l’attività di pesca con la rete a strascico. Su questo argomento non vi annoierò oltre, ma per chi volesse approfondire e leggere qualche triste dato su Tirreno ed Adriatico, allegherò un pdf in fondo al post.
E poi, diciamocela tutta, anche i più scettici ed insensibili alle problematiche ambientali non potranno che essere d'accordo: il problema è anche di carattere estetico! Quanto è bello dover liberare il proprio angolino di spiaggia da mozziconi e cannucce dei succhi di frutta per poter distendere il nostro asciugamano?
E ora un'altro bel numero: nel Mediterraneo galleggiano circa 500 tonnellate di rifiuti plastici. E' questo il risultato della campagna "Expedition Med", portata avanti nel 2010 da ricercatori di Francia e Belgio. La concentrazione di frammenti plastici riscontrata nella zona marina a largo di Spagna, Francia e nord Italia, risulta essere addirittura più alta di quella che riguarda i cosiddetti “continenti spazzatura” presenti nell’ Oceano Pacifico di cui vi parlerò a breve.
Un grande aiuto alla raccolta di dati sulla presenza di rifiuti in mare arriva dalle campagne scientifiche di pesca che, secondo protocollo UE, sono tenute a registrare, oltre ai dati sul pescato, anche il quantitativo di rifiuti antropici raccolti durante l’attività di pesca con la rete a strascico. Su questo argomento non vi annoierò oltre, ma per chi volesse approfondire e leggere qualche triste dato su Tirreno ed Adriatico, allegherò un pdf in fondo al post.
Se pensiamo che tutta la spazzatura si concentri nelle zone più abitate, bè... sbagliamo.
Esistono infatti aree remote del nostro pianeta in cui le correnti concentrano tonnellate di rifiuti creando così i famosi "continenti spazzatura" di cui vi accennavo prima.
Vi illustrerò brevemente il problema e rimando chiunque di voi voglia
approfondire alla pagina del NOAA ( National Oceanic and Atmospheric Administration).
Vengono definiti "Garbage patches" (letteralmente "chiazze di spazzatura") e si trovano concentrate nel nord dell'Oceano Pacifico. Non immaginatevi distese di immondizia galleggianti o isole di spazzatura; purtroppo il problema va ben oltre la plastica visibile. Con il tempo la plastica viene sminuzzata in parti sempre più piccole che galleggiano e si diffondono nella colonna d'acqua. Per l'effetto delle correnti marine, si concentrano con maggiore intensità in queste zone dando origine ad aree inquinate estremamente vaste.
Basti pensare che alcuni campioni d'acqua hanno mostrato che ogni km quadrato di mare contiene circa 300,000 particelle, mentre i fondali circa 100,000.
E sono queste particelle di nylon, poliestere e altre sostanze potenzialmente dannose che possono accumularsi nella catena alimentare e arrivare fino all'uomo. Ma questo mi fa sorridere, in qualche modo dobbiamo pur essere puniti, no?
Nessun sorriso però se penso che per colpa nostra di circa 115 specie di mammiferi marini, 49 sono a rischio intrappolamento o ingestione di rifiuti marini; circa 100.000, di cui 30.000 foche, rimangono uccisi dalla plastica; le tartarughe scambiano i sacchetti di plastica per meduse e se ne cibano; tra i 700.000 e il milione di uccelli marini rimangono ogni anno uccisi per ingestione di materiale plastico e di macabri numeri, purtroppo, ce ne sono molti altri (dati Unep).
Esistono infatti aree remote del nostro pianeta in cui le correnti concentrano tonnellate di rifiuti creando così i famosi "continenti spazzatura" di cui vi accennavo prima.
Vi illustrerò brevemente il problema e rimando chiunque di voi voglia
approfondire alla pagina del NOAA ( National Oceanic and Atmospheric Administration).
Vengono definiti "Garbage patches" (letteralmente "chiazze di spazzatura") e si trovano concentrate nel nord dell'Oceano Pacifico. Non immaginatevi distese di immondizia galleggianti o isole di spazzatura; purtroppo il problema va ben oltre la plastica visibile. Con il tempo la plastica viene sminuzzata in parti sempre più piccole che galleggiano e si diffondono nella colonna d'acqua. Per l'effetto delle correnti marine, si concentrano con maggiore intensità in queste zone dando origine ad aree inquinate estremamente vaste.
Basti pensare che alcuni campioni d'acqua hanno mostrato che ogni km quadrato di mare contiene circa 300,000 particelle, mentre i fondali circa 100,000.
E sono queste particelle di nylon, poliestere e altre sostanze potenzialmente dannose che possono accumularsi nella catena alimentare e arrivare fino all'uomo. Ma questo mi fa sorridere, in qualche modo dobbiamo pur essere puniti, no?
Nessun sorriso però se penso che per colpa nostra di circa 115 specie di mammiferi marini, 49 sono a rischio intrappolamento o ingestione di rifiuti marini; circa 100.000, di cui 30.000 foche, rimangono uccisi dalla plastica; le tartarughe scambiano i sacchetti di plastica per meduse e se ne cibano; tra i 700.000 e il milione di uccelli marini rimangono ogni anno uccisi per ingestione di materiale plastico e di macabri numeri, purtroppo, ce ne sono molti altri (dati Unep).
Il problema della plastica va affrontato con urgenza e responsabilità. Non aspettiamo che i grandi del mondo prendano iniziative risolutorie; ciascuno di noi nel suo piccolo può contribuire alla migliore gestione del problema.
Parlo con voi, genitori che gettate i mozziconi di sigaretta per terra, facendo credere ai vostri figli che sia giusto così; parlo con voi che, se vi vola via la carta dei crackers vi vergognate ad inseguirla...vergognatevi a lasciarla volare via.! E parlo con tutti coloro che hanno voglia di immaginare un mondo un pochino migliore, almeno sotto questo aspetto.
Non lasciamoci sommergere!
Parlo con voi, genitori che gettate i mozziconi di sigaretta per terra, facendo credere ai vostri figli che sia giusto così; parlo con voi che, se vi vola via la carta dei crackers vi vergognate ad inseguirla...vergognatevi a lasciarla volare via.! E parlo con tutti coloro che hanno voglia di immaginare un mondo un pochino migliore, almeno sotto questo aspetto.
Non lasciamoci sommergere!
Ed ora come promesso, i due pdf per gli approfondimenti:
- Unep: Marin litter, a global challege
- Arpa: report sulla plastica
BETTA
- Unep: Marin litter, a global challege
- Arpa: report sulla plastica
BETTA
I coralli di acque fredde
Quando si pensa ai coralli, la prima immagine che viene in mente è sicuramente quella delle meravigliose barriere tropicali: colori splendenti, forme tra le più disparate e una biodiversità altissima. E chi come me ha avuto la fortuna di vederle, conosce bene la sensazione di trovarsi in un paradiso silenzioso a portata di mano, a pochi metri dalla superficie.
Ma come spesso accade – negli oceani e nella vita di tutti i giorni – la superficie nasconde tesori ancor più ricchi e molte volte sconosciuti.
Fin dall'antichità l'uomo è sempre stato attratto dall'idea della vita negli abissi, sebbene più volte nel corso dei secoli la scienza ufficiale abbia cercato di dimostrare il contrario. I primi veri – e ignari - scopritori di tesori biologici erano i marinai che spesso, tirando su le loro reti o gli scandagli manuali, riportavano in superficie strane creature mai viste prima.
Furono questi frequenti ritrovamenti, insieme alla sfida costituita dall'ipotesi della <<zona azoica>> di Edward Forbes, a ispirare numerose spedizioni che diedero poi origine alla biologia del mare profondo.
Anche l'esistenza dei coralli di profondità fu documentata per la prima volta duecento anni fa, con le prime segnalazioni riportate dall’attività dei pescherecci, le cui reti si impigliavano nelle colonie spezzandone le porzioni più arborescenti.
Ma solo con l'avvento di veicoli subacquei si è riusciti ad approfondirne la conoscenza e lo studio, potendo osservare i coralli nel loro ambiente.
Ciò che più affascina è l'aver scoperto dei veri e propri reef in condizioni ambientali estreme; è infatti nota la capacità di questi organismi di costruire delle complesse "città sottomarine" che offrono rifugio e nutrimento a tantissime altre specie, ma questa speciale abilità è sempre stata considerata il frutto della simbiosi fra i polipi (gli organismi che costruiscono i coralli) e le zooxantelle (alghe unicellulari) e si pensava quindi che fosse esclusiva delle basse e calde acque tropicali.
Trovare complesse biocostruzioni a grandi profondità è stata l'ennesima strabiliante conferma che gli abissi sono tutt'altro che un deserto senza vita.
I coralli di acque fredde infatti, nonostante si trovino fra i 40 e i 2500 m di profondità, sono anch'essi in grado di creare reef, pur non avendo le zooxantelle ad aiutarli. Certo crescono più lentamente, ma riescono comunque a dar vita a delle vere oasi in un ambiente normalmente abbastanza ostile.
Sono presenti in quasi tutti gli oceani del mondo, ma è soprattutto nell'Atlantico nord-orientale che si trovano le biocostruzioni più spettacolari. Anche il Mediterraneo, con la sua travagliata storia geologica, ospita sia reef fossili sia ancora vivi, sebbene di dimensioni e complessità inferiori rispetto ai cugini atlantici.
La scoperta è abbastanza recente ed è relativa al ritrovamento di colonie vive al largo della Puglia, area oggi conosciuta come la "Provincia a coralli di Santa Maria di Leuca", uno dei più importanti siti del Mare Nostrum.
Nonostante i reef rappresentino un area di riferimento per molti organismi, la loro costruzione si deve a un numero limitato di specie; le più importanti in Atlantico orientale e in Mediterraneo sono Lophelia pertusa e Madrepora oculata, entrambe appartenti al gruppo dei cosidetti "coralli duri" grazie al loro resistente scheletro carbonatico.
Il nome Lophelia deriva dal greco "lophos" ed "helioi" che significa "ciuffo di sole" ed è riferito alla particolare forma dei polipi.
Questa specie dà origine a colonie ad arbusto che possono raggiungere diversi metri in altezza, composte da migliaia di polipi e caratterizzate da rami che tendono ad anastomizzare con la crescita contribuendo a consolidarne la struttura.
Le colonie di Madrepora oculata hanno invece una morfologia molto ramificata e sono caratterizzate da un peculiare andamento a zig-zag, il che le rende più fragili.
Sono diverse le specie costruttrici predominanti nei reef di acque fredde di altre zone del pianeta: Enallopsammia profunda (Portualès, 1867) nell’Atlantico occidentale; Oculina varicosa (Lesueur, 1821) che predomina invece al largo della Florida e del Nord Carolina. Nell’emisfero australe, specialmente intorno alla Tasmania e alla Nuova Zelanda, sono Goniocorella dumosa (Alcock, 1902) e Solenosmilia variabilis (Duncan, 1873) le specie più importanti.
La straordinarietà di questi coralli non è però semplicemente legata alla loro capacità di crescere in luoghi considerati prima inospitali, ma al loro ruolo di centro di aggregazione di tantissimi altri organismi.
Questi reef rappresentano dei veri e propri ecosistemi che, secondo i più recenti studi effettuati in Atlantico nord-orientale, ospitano più di 2000 specie diverse, numero destinato però a cambiare viste le sempre più frequenti spedizioni esplorative.
Si potrebbe pensare che trovandosi in ambienti normalmente distanti dalle coste abitate, questi coralli non subiscano alcun tipo di impatto umano. Ma la mano dell'uomo è potente e terribile, arriva nei luoghi più impensati.
I pericoli per queste oasi di biodiversità sono infatti numerosi e comprendono diverse attività, dalla pesca a strascico, alla posa di cavi sottomarini; dall'esplorazione per la ricerca e l'estrazione di idrocarburi allo smaltimento di rifiuti.
Proteggere queste aree non significa, come molti purtroppo pensano, mettere un freno al "progresso", ma piuttosto contribuire attivamente al mantenimento di un equilibrio di cui beneficiamo soprattutto noi.
Da sempre l'uomo e il mare vivono in un rapporto così stretto da diventare spesso conflittuale; ci evolviamo insieme e a volte questo ci fa pensare di avere diritti da anteporre a quelli del nostro compagno.
Ma il mare è un vero e proprio mondo, da cui attingiamo a piene mani e a cui è legata la nostra sopravvivenza: proteggerlo significa anche proteggere noi stessi.
Il fondo degli oceani copre sette decimi della superficie terrestre; di questa distesa immensa conosciamo pochissimo, paradossalmente sappiamo più cose sullo Spazio che su questo mondo sommerso.
La scoperta dei coralli di acque fredde aggiunge un altro piccolo ma fondamentale tassello a questa conoscenza e arricchisce la nostra storia di abitanti di un pianeta meraviglioso.
Se volete saperne di più:
www.lophelia.org
www.unep.org/PDF/Coral_flier_E.pdf
www.oceanexplorer.noaa.gov
www.panda.org/downloads/.../cwcbrochure.pdf
ALICE
Ma come spesso accade – negli oceani e nella vita di tutti i giorni – la superficie nasconde tesori ancor più ricchi e molte volte sconosciuti.
Fin dall'antichità l'uomo è sempre stato attratto dall'idea della vita negli abissi, sebbene più volte nel corso dei secoli la scienza ufficiale abbia cercato di dimostrare il contrario. I primi veri – e ignari - scopritori di tesori biologici erano i marinai che spesso, tirando su le loro reti o gli scandagli manuali, riportavano in superficie strane creature mai viste prima.
Furono questi frequenti ritrovamenti, insieme alla sfida costituita dall'ipotesi della <<zona azoica>> di Edward Forbes, a ispirare numerose spedizioni che diedero poi origine alla biologia del mare profondo.
Anche l'esistenza dei coralli di profondità fu documentata per la prima volta duecento anni fa, con le prime segnalazioni riportate dall’attività dei pescherecci, le cui reti si impigliavano nelle colonie spezzandone le porzioni più arborescenti.
Ma solo con l'avvento di veicoli subacquei si è riusciti ad approfondirne la conoscenza e lo studio, potendo osservare i coralli nel loro ambiente.
Ciò che più affascina è l'aver scoperto dei veri e propri reef in condizioni ambientali estreme; è infatti nota la capacità di questi organismi di costruire delle complesse "città sottomarine" che offrono rifugio e nutrimento a tantissime altre specie, ma questa speciale abilità è sempre stata considerata il frutto della simbiosi fra i polipi (gli organismi che costruiscono i coralli) e le zooxantelle (alghe unicellulari) e si pensava quindi che fosse esclusiva delle basse e calde acque tropicali.
Trovare complesse biocostruzioni a grandi profondità è stata l'ennesima strabiliante conferma che gli abissi sono tutt'altro che un deserto senza vita.
I coralli di acque fredde infatti, nonostante si trovino fra i 40 e i 2500 m di profondità, sono anch'essi in grado di creare reef, pur non avendo le zooxantelle ad aiutarli. Certo crescono più lentamente, ma riescono comunque a dar vita a delle vere oasi in un ambiente normalmente abbastanza ostile.
Sono presenti in quasi tutti gli oceani del mondo, ma è soprattutto nell'Atlantico nord-orientale che si trovano le biocostruzioni più spettacolari. Anche il Mediterraneo, con la sua travagliata storia geologica, ospita sia reef fossili sia ancora vivi, sebbene di dimensioni e complessità inferiori rispetto ai cugini atlantici.
La scoperta è abbastanza recente ed è relativa al ritrovamento di colonie vive al largo della Puglia, area oggi conosciuta come la "Provincia a coralli di Santa Maria di Leuca", uno dei più importanti siti del Mare Nostrum.
Nonostante i reef rappresentino un area di riferimento per molti organismi, la loro costruzione si deve a un numero limitato di specie; le più importanti in Atlantico orientale e in Mediterraneo sono Lophelia pertusa e Madrepora oculata, entrambe appartenti al gruppo dei cosidetti "coralli duri" grazie al loro resistente scheletro carbonatico.
Il nome Lophelia deriva dal greco "lophos" ed "helioi" che significa "ciuffo di sole" ed è riferito alla particolare forma dei polipi.
Questa specie dà origine a colonie ad arbusto che possono raggiungere diversi metri in altezza, composte da migliaia di polipi e caratterizzate da rami che tendono ad anastomizzare con la crescita contribuendo a consolidarne la struttura.
Le colonie di Madrepora oculata hanno invece una morfologia molto ramificata e sono caratterizzate da un peculiare andamento a zig-zag, il che le rende più fragili.
Sono diverse le specie costruttrici predominanti nei reef di acque fredde di altre zone del pianeta: Enallopsammia profunda (Portualès, 1867) nell’Atlantico occidentale; Oculina varicosa (Lesueur, 1821) che predomina invece al largo della Florida e del Nord Carolina. Nell’emisfero australe, specialmente intorno alla Tasmania e alla Nuova Zelanda, sono Goniocorella dumosa (Alcock, 1902) e Solenosmilia variabilis (Duncan, 1873) le specie più importanti.
La straordinarietà di questi coralli non è però semplicemente legata alla loro capacità di crescere in luoghi considerati prima inospitali, ma al loro ruolo di centro di aggregazione di tantissimi altri organismi.
Questi reef rappresentano dei veri e propri ecosistemi che, secondo i più recenti studi effettuati in Atlantico nord-orientale, ospitano più di 2000 specie diverse, numero destinato però a cambiare viste le sempre più frequenti spedizioni esplorative.
Si potrebbe pensare che trovandosi in ambienti normalmente distanti dalle coste abitate, questi coralli non subiscano alcun tipo di impatto umano. Ma la mano dell'uomo è potente e terribile, arriva nei luoghi più impensati.
I pericoli per queste oasi di biodiversità sono infatti numerosi e comprendono diverse attività, dalla pesca a strascico, alla posa di cavi sottomarini; dall'esplorazione per la ricerca e l'estrazione di idrocarburi allo smaltimento di rifiuti.
Proteggere queste aree non significa, come molti purtroppo pensano, mettere un freno al "progresso", ma piuttosto contribuire attivamente al mantenimento di un equilibrio di cui beneficiamo soprattutto noi.
Da sempre l'uomo e il mare vivono in un rapporto così stretto da diventare spesso conflittuale; ci evolviamo insieme e a volte questo ci fa pensare di avere diritti da anteporre a quelli del nostro compagno.
Ma il mare è un vero e proprio mondo, da cui attingiamo a piene mani e a cui è legata la nostra sopravvivenza: proteggerlo significa anche proteggere noi stessi.
Il fondo degli oceani copre sette decimi della superficie terrestre; di questa distesa immensa conosciamo pochissimo, paradossalmente sappiamo più cose sullo Spazio che su questo mondo sommerso.
La scoperta dei coralli di acque fredde aggiunge un altro piccolo ma fondamentale tassello a questa conoscenza e arricchisce la nostra storia di abitanti di un pianeta meraviglioso.
Se volete saperne di più:
www.lophelia.org
www.unep.org/PDF/Coral_flier_E.pdf
www.oceanexplorer.noaa.gov
www.panda.org/downloads/.../cwcbrochure.pdf
ALICE